Opinioni

Più grandi della colpa/24. Il cuore infinito delle donne

Luigino Bruni domenica 1 luglio 2018

«Davvero l’uomo è un fiume melmoso. Bisogna essere un mare per accogliere un fiume melmoso senza intorbidarsi».

Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra


Ai figli non lasciamo soltanto il nostro patrimonio genetico e poi quello economico. Anche le nostre virtù e i nostri peccati diventano loro eredità. Si trasmettono per mezzo dei loro occhi, con i quali prima ci guardano e poi ci imitano – la probabilità che un figlio di fumatori diventi fumatore è doppia rispetto a un figlio di non fumatori. Il nostro stile di vita relazionale, le virtù e i vizi della nostra casa, la nostra generosità e la nostra avarizia, formano un Dna culturale e morale che passiamo ai nostri figli, quasi sempre senza beneficio d’inventario. E anche quando riescono a diventare migliori dei nostri peccati (e, grazie a Dio, qualche volta ce la fanno), la nostra eredità etica li condiziona sempre e molto. Quando decidiamo di cedere alle tentazioni che ci aspettano puntuali nei crocicchi della vita, stiamo accumulando la prima dote che lasceremo ai figli e al mondo di domani.

Ancora turbati dalla violenza di Davide verso Betsabea e Uria, e sedotti dalla forza e dalla bellezza delle parole di Natan, voltiamo pagina e ci ritroviamo in un episodio analogo. In una scena tremenda e mirabile, i cui protagonisti principali sono Amnon, il primogenito di Davide, e Tamar, figlia di Davide ma nata da un’altra moglie (Ahinoam) – se non fosse una brutta parola, diremmo che Tamar era la sorellastra di Amnon: «Amnon figlio di Davide si innamorò di Tamar. Amnon ne ebbe una tale passione da cadere malato a causa di Tamar, sua sorella» (2 Samuele 13,1-2). Amnon è innamorato al punto di ammalarsi d’amore. Anche lui, come suo padre, è attratto da una donna, anch’ella «molto bella» e proibita. Qui però Amnon conosce molto bene Tamar, e la sua è una tentazione coltivata per una sorella più piccola, con un nome e una storia.

Tamar è fortemente desiderata ma è irraggiungibile perché è vergine e quindi tenuta distante dai maschi della casa, in una abitazione separata: «Poiché ella era vergine, pareva impossibile ad Amnon di poterle fare qualcosa» (13,2). Diversamente da Betsabea, che era sposata, questa di Amnon è una impossibilità pratica più che giuridica. La soluzione la trova suo cugino Ionadàb, «un uomo molto esperto»: «Egli disse: "Perché tu, figlio del re, diventi sempre più magro di giorno in giorno? Non me lo vuoi dire?". Amnon gli rispose: "Sono innamorato di Tamar, sorella di mio fratello Assalonne". Ionadàb gli disse: "Mettiti a letto e fa’ l’ammalato; quando tuo padre verrà a vederti, gli dirai: "Mia sorella Tamar venga a darmi il cibo da preparare sotto i miei occhi, perché io possa vedere e prendere il cibo dalle sue mani"» (13,4-5).

Il testo non chiama esplicitamente in causa il divieto o tabù dell’incesto (in quel tempo non era ancora condannato in Israele: si pensi al matrimonio tra Abramo e Sara: Genesi 20,12). Il reato di Amnon sarà quello di un uomo nei confronti di una donna, che va oltre il (già molto grave) peccato di incesto. Il suo gesto non avrebbe perso gravità se Tamar fosse stata semplicemente una ragazza di casa senza legami di sangue. Amnon si comporta in modo scellerato non tanto e non solo in quanto fratello, ma in quanto uomo e maschio – anche se il fatto che Tamar fosse sorella di Assalonne sarà un elemento decisivo per le conseguenze politiche di quell’azione.

Davide asseconda il desiderio del figlio di ricevere il cibo dalle mani di Tamar, e le manda a dire: «Va’ a casa di Amnon tuo fratello e prepara una vivanda per lui» (13,7). Tamar accetta di andare a portare le frittelline al fratello (il suo cibo favorito, del cuore); si fida di lui, ignara che la vivanda desiderata era lei. In quel suo andare fiducioso rivivono molte sorelle e ragazze di casa che, ingenuamente e con purezza, entrano nelle stanze dei maschi, e, qualche volta, non ne escono più. Tamar si reca da suo fratello malato: «Prese la farina, la impastò, ne fece frittelle sotto i suoi occhi e le fece cuocere. Poi gliele apparecchiò» (13,8-9). Fin qui siamo dentro una scena familiare che vediamo ripetersi molte volte anche nelle nostre case. Ma ecco la svolta narrativa: «Amnon si rifiutò di mangiare e disse: "Escano tutti di qui". Tutti uscirono di là. Allora Amnon disse a Tamar: "Portami la vivanda in camera e prenderò il cibo dalle tue mani". Tamar prese le frittelle che aveva fatto e le portò in camera ad Amnon suo fratello» (13,9-10). Amnon usa il suo status di principe per di più malato per creare il contesto idoneo per raggiungere il suo obiettivo. Rimasto solo in camera con Tamar, «mentre gli porgeva il cibo, egli l’afferrò e le disse: "Vieni, giaci con me, sorella mia"» (13,9-11). L’agguato si compie: «Ella gli rispose: "No, fratello mio, non farmi violenza. Questo non si fa in Israele: non commettere quest’infamia!"» (13,12). Questo non si fa in Israele; queste cose non si devono fare sulla terra.

Amnon, il primo figlio di Davide, fa il suo ingresso nella Bibbia subito dopo l’adulterio di suo padre, e ne continua lo stesso delitto. Davide usò la forza per prendersi Betsabea, suo figlio ricorre alla confidenza tra fratelli per ottenere lo stesso risultato. A dirci che l’intimità tra vicini, che è tra le cose più belle sulla terra, crea uno spazio che può essere riempito dalla tenerezza e dal rispetto, ma anche dalla violenza e dal sopruso. Non è la vicinanza a farci prossimi, ce lo ricorda il buon samaritano, né è sufficiente aprire la porta di casa per essere ospitali. Anche nelle sfere più intime esistono tentazioni iscritte nei rapporti di forza, e la sapienza delle famiglie e delle comunità sta nel saper vedere queste tentazioni possibili e quindi proteggere la parte debole – una sapienza che mancò nella casa di Davide, che troppo spesso manca nelle nostre.

La ragazza si trova in trappola, fa ricorso prima alla compassione («fratello mio»), poi alla ragione: «E io, dove andrei a finire col mio disonore? Quanto a te, tu diverresti uno dei più infami in Israele. Parlane piuttosto al re: egli non mi rifiuterà a te» (13,13). Le ricorda anche la sua condizione di principe, e la possibilità di averla legittimamente da loro padre («egli non mi rifiuterà a te»: un altro elemento che dice la non centralità del reato d’incesto nella storia). Ma Amnon non ascolta né il cuore né la testa, perché non gli interessa avere un rapporto con una persona nei modi e tempi della vita vera. Vuole mangiare il suo cibo diverso di cui era affamato, e lo vuole divorare subito. E così perpetra il suo delitto: «Fu più forte di lei e la violentò giacendo con lei» (13,14). Un’altra lapide che la Bibbia erge, perché noi possiamo ricordare. Un’altra vittima, un’altra donna, usata come un oggetto per soddisfare passioni sbagliate di maschi potenti. Un’altra ospite divorata, da un altro Polifemo, in un’altra caverna.

Quindi, con una finezza psicologica sorprendente, il testo subisce una forte torsione narrativa: «Poi un odio violentissimo si impossessò di Amnon, un odio verso di lei più grande dell’amore con cui l’aveva amata prima. Le disse: "Àlzati, vattene!"» (13,15-16). La reazione di Amnon svela i suoi veri sentimenti. Non era innamorato di Tamar, era solo attratto sensualmente dal suo corpo. Era tutto e solo eros, senza philia e soprattutto senza agape. E quando l’eros non è accompagnato dalle sue due sorelle, diventa l’egoismo perfetto. Come una belva, mangia la carne della preda finché non è sazio, e poi fugge dalla carcassa. Amnon si comporta come chi dopo un rapporto sessuale mercenario scappa con la camicia ancora sbottonata dalla stanza di un hotel, o fa uscire di corsa la donna mezza svestita dall’auto buia. Perché non è l’eros, ma l’intimità dell’amicizia e la tenerezza che trattengono il maschio accanto alla donna dopo la consumazione dell’atto sessuale. Ci siamo distinti dagli scimpanzé e dai leoni quando abbiamo imparato a restare accanto alle donne dopo aver soddisfatto i nostri appetiti, e poi le abbiamo aiutate ad allevare i nostri bambini – se non si sa restare accanto dopo l’eros non si saprà neanche restare accanto a una culla nelle veglie, e alla fine non si saprà restare nelle ultime, infinite, notti. È solo un amore più grande dell’eros che ci insegna a restare.

Amnon caccia via Tamar perché non l’amava né come donna, né come sorella, né come persona: «Tamar gli rispose: "O no! Questo male, che mi fai cacciandomi, è peggiore dell’altro che mi hai già fatto"» (13,16). Una frase tremenda e bellissima, che ci spalanca il cuore di molte donne violentate e cacciate, che, diversamente da Tamar, non hanno fiato per parlare e restano in un pianto muto – la Bibbia continua a donarci parole quando le nostre sono strozzate dal troppo dolore. Nella Bibbia e nella vita il secondo dolore del rifiuto si somma al primo dolore della violenza e lo moltiplica – ma quanto è grande il cuore delle donne?

«Ma egli non volle ascoltarla. Anzi, chiamato il domestico, gli disse: "Caccia fuori questa qui e sprangale dietro la porta"» (13,17). Questa qui: i carnefici non chiamano mai le vittime per nome, pronunciarlo potrebbe creare una ferita nell’anima dove potrebbe insinuarsi un soffio di umanità. Li chiamano "migranti economici", non Mustafà, Joe, Maria, perché forse dopo potrebbero salvarli.

La Bibbia non solo chiama Tamar per nome, come aveva chiamato Agar, Dina, Anna; ne vede anche la sua veste: «Ella vestiva una tunica con le maniche lunghe» (13,18). Una veste colorata, il bel vestito delle giovani principesse. Una veste con le maniche lunghe, come quella che indossava Giuseppe, quando fu venduto come merce da altri fratelli. Giuseppe uscì dalla sua cisterna, lasciò la stanza dove subì violenza, e divenne prima la salvezza dei suoi ospiti egiziani e poi anche dei suoi fratelli. Tamar invece non fu salvata da nessuno. Dopo questa violenza esce dalla Bibbia, e non ci tornerà più: «Tamar si sparse cenere sulla testa, si stracciò la tunica con le maniche lunghe che aveva indosso, si mise le mani sulla testa e se ne andava gridando» (13,18-19). Tamar strappa la sua veste dalle maniche lunghe. Si getta la cenere sul capo, e inizia un lutto che non finirà più. Divenne vedova senza essere mai stata sposa. Da quel giorno Tamar non ha più smesso di gridare. Noi possiamo non ascoltare il suo grido e dimenticarlo; ma possiamo anche decidere di raccoglierlo e non smettere mai di udirlo, per poterlo riconoscere in quello delle molte sorelle di Tamar.

Come lei principesse bellissime, come lei con la veste stracciata, che con lei continuano a urlare lungo le nostre strade.

l.bruni@lumsa.it