Un processo doveroso e l’errore della gogna su Facebook Comunque ripugnante alla coscienza morale e civile di un popolo, la vicenda che ha avuto il suo tragico epilogo nella morte di Stefano Cucchi non cessa di avere sviluppi sconcertanti. Come si sa, un primo processo non ha portato a esiti adeguati gli incontestabili riscontri di fatti innegabilmente gravissimi nella loro oggettività, a partire dalle ripetute percosse constatate sulla persona di Cucchi e sicuramente poste in essere dopo il suo arresto. Di recente, a seguito di coraggiose iniziative dei familiari della vittima, le indagini sono state riaperte e tra breve, con l’udienza per l’assunzione di nuove prove fissata per il 29 gennaio, dovrebbe potersi fare la prima luce, nel rispetto dei diritti difensivi, sugli ulteriori particolari che sono andati emergendo, così da aprire la strada giusta – almeno così si spera – a un giudizio su più solide fondamenta. Nel frattempo, però, si è avuta la divulgazione di dati investigativi inquietanti, comprese alcune intercettazioni, dalle quali parrebbe persino che le violenze perpetrate su Cucchi siano diventate oggetto di vanterie e occasione di ulteriori propositi bellicosi da parte di taluni appartenenti alle forze dell’ordine. Donde, anzitutto, il solito dilemma: è legittimo, è opportuno, è giusto, o no, che sia data anticipata pubblicità a questi frammenti, più o meno ampi, di un quadro processuale che andrà ricostruito nella sua interezza soltanto nel contraddittorio tra accusa e difesa? Stavolta, però, a far discutere non è soltanto quel dilemma: sempre, del resto, di difficile soluzione, giacché alle esigenze di trasparenza della giustizia e al diritto dell’opinione pubblica di esser informata con tempestività (esigenze particolarmente acute in casi come questo) si contrappone quella di garantire la presunzione d’innocenza e il diritto di difesa degli indagati. E neppure si tratta unicamente di mantenersi a distanza, tanto da chi tende a scorgere un carnefice in ogni poliziotto o carabiniere (e a sorvolare pregiudizialmente sul carattere stressante di compiti come quelli che talvolta impone la lotta alla droga) quanto da chi vorrebbe assolvere sempre e comunque da ogni responsabilità coloro che vestono una divisa o, se non altro, farli beneficiare di tutte le attenuanti se vanno al di là di ciò che è loro consentito nell’uso della forza. Un gesto inedito, ma non meno sconcertante, ha monopolizzato l’attenzione in questi giorni. È la pubblicazione su Facebook della fotografia di uno degli indagati da parte della sorella di Stefano Cucchi (subito imitata dalla familiare di un altro morto in circostanze sconvolgenti). Il gesto ha alla base un’esasperazione provocata da tanti fattori, compresa la non infondata sensazione che questi sei anni siano stati avvelenati da complici silenzi e da inerzie colpevoli. Perciò lo si può, lo si deve comprendere, al di là del ridimensionamento (in verità, molto parziale) che Ilaria Cucchi ne ha poi voluto dare. Non ritengo che lo si debba portare ad esempio. E da deplorare è in ogni caso chi, senza vivere in proprio il dramma del congiunto di una vittima di morte violenta, propone ronde o spedizioni punitive, dando sfogo a istinti bestiali, non migliori di quelli che tutto fa pensare abbiano provocato quella morte. Ed è colpa di quegli istinti, non dello strumento scelto per esternarli, se, grazie al web, vengono amplificate e moltiplicate le potenzialità distruttive della tendenza al linciaggio, morale o materiale, che alberga in tanti cuori. Ma bisogna anche dire che, se vuole contribuire a porre un argine a quegli istinti, da qualunque parte e in qualunque modo si manifestino, stavolta l’amministrazione della giustizia non può permettersi di fallire, come sarebbe se fosse ancor incapace di fare piena luce su una pagina buia della sua stessa storia.