Opinioni

Il Quantitative Easing. Piano Draghi, avanti tutta con la "cura"

Leonardo Becchetti venerdì 6 marzo 2015
Lo spread tornato sotto la soglia simbolica dei 100 punti ha prodotto varie ondate di euforia. Ha dovuto ricredersi anche chi fino a qualche tempo fa era affetto da "benaltrismo", e si affrettava a raffreddare gli entusiasmi sostenendo che l’acquisto massiccio di titoli di Stato dei Paesi da parte della Banca centrale europea, il famoso quantitative easing, arrivava troppo tardi e, comunque, non avrebbe funzionato da noi perché "non siamo gli Stati Uniti d’America". Con sette anni di ritardo sugli Usa abbiamo invece imparato cosa significa "incassare" il dividendo monetario della globalizzazione, e questo prima ancora che lunedì prossimo, come ha confermato ieri Mario Draghi, partano le operazioni di acquisto della Bce: la svalutazione del cambio, il crollo degli interessi che paghiamo sul nuovo debito e la lotta alla deflazione hanno avviato un processo che a regime renderà il nostro debito pienamente sostenibile.Il quantitative easing, che su queste pagine abbiamo cominciato a chiedere sin dal 2012, è stata la richiesta più pressante tra quelle contenute nell’appello per una "nuova Bretton Woods" rivolto da 350 economisti al nostro governo, che – bisogna dargliene atto – si sta spendendo con energia in Europa per cambiare i rapporti di forza e modificare la rotta iper-rigorista.Nonostante questo importante risultato è presto per cantare vittoria. Molti degli effetti messi in moto, e già anticipati dai mercati, produrranno pienamente i propri effetti solo nel tempo. La durata media del nostro debito è di circa sette anni e, dunque, ci sarà da attendere prima che le condizioni di finanziamento così favorevoli di questi giorni producano effetto su tutto l’ammontare. Anche l’obiettivo che si è data la Bce di continuare le operazioni di quantitative easing  fino a che l’inflazione non ritorni vicina al traguardo del 2% è lontano dall’essere raggiunto.Per guardare alle cifre, tenendo fermo l’attuale avanzo primario (la differenza tra entrate e uscite) al 3,3%, e partendo dal rapporto debito/Pil oggi al 133%, le promesse del quantitative easing di farci approdare a un’inflazione al 2% e a un costo medio del debito del 2% farebbero scendere il nostro debito di 4,6 punti all’anno anche con una crescita modesta, dell’1% (o del 3,3% all’anno anche in caso di crescita zero!). Al momento, tuttavia, abbiamo un costo medio del debito attorno al 3,8% e una deflazione dello 0,5%, situazione in cui per incominciare a veder calare il rapporto tra debito e Pil servirebbe una crescita superiore all’1,8%.Sarebbe bene, perciò, approfittare di questa fase per curare alcuni mali endemici del nostro sistema Paese, come i tempi della giustizia civile e i ritardi sulla banda larga (terreni su cui il Governo mostra di volersi muovere). Un punto che resta centrale è come far ripartire i consumi e, soprattutto, gli investimenti, considerato che non si può vivere di solo export.La durata media dei nostri impianti industriali sfiora i 19 anni, il che vuol dire che gli investimenti sono fermi da tempo. Abbiamo bisogno di una classe imprenditoriale che ricominci a rischiare, aiutata anche da condizioni fiscali più favorevoli. Quanto al piano Juncker, che per le risorse stanziate richiede un forte coinvolgimento di capitali privati, non è in grado di aumentare gli investimenti pubblici con impatti significativi sulla crescita. Il versante su cui il quantitative easing non può far molto è invece costringere le banche a concedere credito alle imprese. Un’operazione di pulizia dai crediti deteriorati attraverso la costituzione di una "bad bank" potrebbe aiutare moltissimo, così come il mantenimento della biodiversità del sistema bancario, ma ricordando che senza il divieto di trading proprietario per le banche commerciali continuerà a essere forte il rischio che gli istituti dediti alla massimizzazione del profitto preferiscano usare la moneta abbondante di cui dispongono per attività apparentemente più redditizie del credito.Dobbiamo poi tener presente che non possiamo promuovere un vero benessere se non incominciamo a usare indicatori migliori. Come ha ricordato il Nobel Joseph Stiglitz proprio su "Avvenire", limitarsi a guardare il Pil è fuorviante. Ma se anche volessimo fermarci al solo benessere economico, sarebbe utile considerare elementi come la soglia di reddito disponibile (mediana) che divide la metà più ricca della popolazione da quella più povera. Con indicatori corretti i nostri politici potrebbero non stupirsi qualora scoprissero che nonostante la media indichi un pollo a testa, e in crescita, in realtà metà della popolazione continua a dirsi non contenta della situazione, per il semplice fatto che si trova a bocca asciutta.