Più orizzonte e più doveri. I conti e i compiti di partiti e governo
Il 3-3 nelle sei Regioni (a statuto ordinario) che hanno votato il governatore ieri e domenica, unito alla vittoria del Sì al referendum, restituiscono a Giuseppe Conte un quadro a colori vivaci nemmeno immaginabile alla vigilia dell’electionday: il Pd di Nicola Zingaretti assalta la Lega come primo partito e difende Toscana, Puglia e Campania, il Movimento 5 Stelle di Luigi Di Maio (e di nessun altro, lo si è ormai capito) perde ancora peso, ma incassa il taglio del numero dei parlamentari. Persino le vittorie del centrodestra – in Liguria il moderato Toti, in Veneto lo 'zaiano' Zaia che con la sua lista dà più di 30 punti al Carroccio, nelle Marche il meloniano Acquaroli – possono anche non far ombra e certo non danno gran cruccio al premier: la 'punta' Salvini perde voti e fa sempre più fatica a fare gol, alcuni dei suoi compagni di squadra non gli passano più la palla, per andare in porta deve prendere l’iniziativa Giorgia Meloni, e in ogni caso entrambi, Salvini e Meloni, volenti o nolenti, devono comunque ringraziare il filtro fragile ed essenziale a centrocampo di Forza Italia (e dintorni).
Date le premesse, c’è da concedersi un insperato brindisi, a Palazzo Chigi. Breve, però. Perché il quadro politico resta instabile. Una lieve scossa può far inclinare pericolosamente il piano. E fragile resta soprattutto il fronte del premier, quello giallorosso. Perché mentre si conferma in tutti i territori della Penisola un’alternativa di governo data da un centrodestra plurale e non più monolitico, tarda a comporsi la vera identità della nuova coalizione formata da Pd, M5s, Italia viva, Azione, forze riformiste e moderate, movimenti di sinistra. Fatto salvo il Pd zingarettiano, tutte queste forze ripongono false aspettative sul ritorno più deciso al proporzionale. Che ci sarà, ben inteso.
Ma non per scatenare il rompete le righe. Anche se c’è chi – da Renzi a settori frondisti del M5s – ritiene che il proporzionale possa essere una via d’uscita comoda e veloce dalla gabbia di alleanze scomode e gravate da antichi rancori, nel Paese la cultura coalizionale è forte e ormai ineludibile. O ci si mostra credibili insieme, o si perde. La Liguria, dove nonostante gli slogan di facciata la frammentazione ha soverchiato plasticamente il tentativo di riunirsi, il risultato parla chiarissimo.
C’è da immaginare che da oggi in poi il ruolo politico di Conte crescerà, a fianco a quello di Di Maio e di uno Zingaretti che allontana la resa dei conti interna, per comporre le alleanze in vista delle amministrative 2021 e per assestare la rotta dell’esecutivo, a costo – probabilmente – di perdere qualche ala estrema del Movimento. E allo stesso tempo c’è da immaginare una nuova ulteriore evoluzione dialettica e programmatica nel centrodestra, che ormai non vince più per la propaganda sovranista – palesemente abbandonata in queste ultime Regionali – ma per le proposte sui temi (coniugate, come nelle Marche, all’amministrazione non positiva del centrosinistra sia dell’emergenza Covid sia del post-terremoto).
Il tempo di questa parallela evoluzione dei due (quasi) rinati poli potrebbe essere propizio. Buono per scrivere davvero insieme la legge elettorale e le altre riforme istituzionali, senza le quali il taglio del numero dei parlamentari resta comunque un simulacro scivoloso, a prescindere dalle intenzioni e dalle promesse degli attuali protagonisti politici. E buono anche per affrontare con un po’ di buon senso e un minimo di senso patriottico, pur nella distinzione dei ruoli tra forze di maggioranza e d’opposizione, l’enorme opportunità dei fondi europei e del Mes. Buono, non per ultimo, per gareggiare nel comprendere meglio il grido del buon civismo, cattolico e laico, che è sempre più esasperato dalle contorsioni 'romane'.
E che dai territori inizia a esprimere nuove istanze e una sincera classe dirigente ignorata dai partiti e al contrario valorizzata dai governatori. D’altra parte tutti i partiti hanno problemini e problemoni interni da risolvere prima di lanciare nuove cacce al voto: la Lega cala ovunque, in Campania scende ben sotto il 10% e Zaia offusca Salvini; M5s ha una rappresentanza parlamentare con cento anime che è ormai il triplo del suo consenso reale anche nelle roccaforti meridionali; il Pd viene fuori bene dalle Regionali ma sul referendum e sulle alleanze si è involuto dentro una delle sue tradizionali lacerazioni teoriche; Italia Viva è un progetto a macchia di leopardo che non sfonda come Renzi sperava; FdI fa un altro balzo, avvicina e in alcune Regioni supera la Lega ma non basta per fare di questa destra in evoluzione l’elemento equilibratore della coalizione.
Fuori dal politichese, e dentro le pieghe di un Paese che resta confuso e preoccupato, il risultato referendario che compie e circoscrive le spinte populistiche di questi anni e il 3-3 delle Regionali corroborato da una partecipazione superiore alle attese possono somigliare – senza ingenuità – a un invito al dialogo, al confronto, al rispetto e al riconoscimento reciproco. Lasciando perdere sin da subito la boutade sull’attuale Parlamento che non sarebbe legittimato – alla luce del risultato referendario – a eleggere il nuovo capo dello Stato. Semplicemente è una discussione che non ha motivo di esistere. Una discussione per perdere tempo, quando tempo da perdere non ce n’è.