Il nome a un cadavere. Più forte della morte l’umana pietà
Era un caldo giorno di estate il 18 luglio 1998, quando una motovedetta della Polizia di frontiera marittima di Livorno avvistò a nord ovest dell’isola di Capraia il corpo senza vita di un giovane uomo biondo. Indossava solo un orologio di plastica nero, una scarpa da barca, e all’anulare portava la fede, con inciso dentro: Caterina, 24 ottobre 1992. Morto per annegamento, stabilì l’autopsia. Ma non ci fu modo di scoprire l’identità dell’uomo, nonostante le indagini dei poliziotti livornesi. Si rivolsero perfino a 'Chi l’ha visto?': niente, il marinaio sembrava venuto dal nulla. Venne sepolto al cimitero dei Lupi di Livorno, sotto alla scritta: 'NN'. Le fotografie del funerale mostrano una cappella d’obitorio vuota, e solo, oltre al celebrante, quattro o cinque poliziotti, venuti per umana pietà. Uno di quei poliziotti era il commissario Ilario Sartori, padre di famiglia, una passione per il volontariato. Lo sconosciuto di cui nessuno reclamava il corpo gli restò nel cuore, e promise a se stesso che avrebbe scoperto chi era. Conservò nei cassetti della scrivania, oltre alla fede col nome della sposa, l’orologio, che era di quelli robusti, indistruttibili: e ogni giorno, a mezzogiorno, squillava, nell’ultima sveglia impostata dal suo proprietario.
Ogni giorno quel trillo puntuale, che al commissario suonava come un’insistente domanda: non ti dimenticare di me. Perché, ha dichiarato Sartori ai giornali di Livorno, se quell’uomo portava una fede aveva una famiglia: e da qualche parte del mondo doveva esserci una Caterina che ancora, invano, aspettava. Nel ’98 il web era agli albori, non c’erano i siti e gli strumenti di adesso. Da Livorno cercarono nei registri dei porti, nulla. Nemmeno le impronte digitali dello sconosciuto risultavano, negli schedari dell’Interpol. Due anni fa quel commissario è andato in pensione, dopo 40 anni di servizio.
Non ha dimenticato però la sua promessa al marinaio di Caprera. Anzi, profittando del maggior tempo libero si è dato alla esplorazione del web. Ha vagliato pazientemente sui siti delle polizie straniere gli elenchi degli scomparsi. Finché sul portale della polizia croata si è imbattuto in un volto simile a quello del 'suo' morto. Un uomo con una pronunciata fossetta sul mento, proprio come il naufrago sconosciuto. Il confronto delle impronte digitali ha confermato l’intuizione. L’annegato del 18 luglio 1998 ora ha un nome: Zlatko Brajko, 34 anni, croato, da Bol, sull’isola di Brac, costa Dalmata. Si era comprato una barca per portare i turisti nel suo mare. Ma a una sorella, in un’ultima lettera, aveva scritto che voleva far rotta sull’Africa, per andare a aiutare i poveri. Un uomo in crisi, alla ricerca, nel mare, di se stesso? A casa aveva una moglie italiana, e un figlio allora appena nato. Sartori li ha rintracciati telefonicamente. Lo hanno ringraziato di cuore, e verranno a Livorno, perché finalmente un marito e padre ha una tomba; ed è fondamentale, fra gli uomini, avere una pietra su cui fermarsi, e piangere.
E questo il commissario livornese già lo sapeva, come lo sa ogni padre di famiglia, ogni italiano di quelli buoni. Che comprendono ancora quanto vale una piccola fede d’oro, con una data incisa dentro, e un nome di donna. Che hanno pietà del prossimo, anche sconosciuto, anche di quei tanti che naufragano nel nostro mare – come il piccolo migrante africano con la pagella di scuola cucita nella tasca, identificato dalla équipe della anatomopatologa Cristina Cattaneo fra i troppi cadaveri del grande naufragio dei ragazzi del 2015. Italiani capaci di ascoltare per anni, pensosi, lo squillo puntuale di un vecchio orologio, a mezzogiorno. E di riconoscerci, al fondo, una preghiera.