Israeliani, palestinesi e l’ombra dell’Iran. Più feroce e vera questa guerra
Dipanare un nodo ingarbugliato come nessun altro al mondo, e stabilire torti e ragioni, fra israeliani e palestinesi è impossibile. Troppa storia, troppe vicissitudini, troppe similitudini, troppe differenze avvinghiano quei due popoli in un abbraccio che a ciclica scadenza si fa repentinamente mortale, mortifero, foriero di lutti e di nuovi rancori.
Eppure nell’inestricabile e apparentemente immutabile conflitto qualcosa sta cambiando. Questa terza intifada è una guerra più feroce e più vera, con armi più 'vere', non più i petardi quasi caricaturali che da Gaza spiovevano su Sderot, su Ashdod, su Ashkelon, la città di Sansone e del maestro di Cicerone Antioco d’Ascalona, ma missili a media gittata, che si spingono verso nord fino a Tel Aviv, come gli Ayyash 250 (dal nome di un comandante palestinese ucciso nel 1996 dall’esplosivo contenuto nel suo telefono cellulare) o i Khaibar 302, rivelando non solo l’evidente salto di qualità nell’arsenale a disposizione di Hamas e la sua indubbia provenienza iraniana, ma il messaggio stesso che migliaia di razzi recano con sé.
Non per nulla questa guerra fra Palestina e Israele, tragico calco delle precedenti Cast Lead del 2008, Pillar of Defense del 2012 e Protective Edge del 2014 (i nomi delle operazioni militari li assegnano gli israeliani) segna uno spartiacque rispetto al passato. Due figure si stagliano sulla scena, quella di Benjamin Netanyahu e quella del leader di Hamas Ismail Haniyeh, mentre alle loro spalle si dissolve in una spenta eclissi il profilo del presidente dell’Anp Abu Mazen, ridotto a comprimario del grande duello fra Israele e Hamas. Così come comprimario dopotutto è anche lo stesso Haniyeh, figura anch’essa svuotata di fronte all’intransigenza delle brigate Ezzedin al-Qassam dei battaglioni Al-Quds e della Jihad, i veri signori della guerra di Hamas.
Sia Abu Mazen sia Haniyeh sono ostaggi della propria paura. Abu Mazen, ottantacinquenne e tardo epigono di Fatah, ha annullato le elezioni che aveva indetto dopo sedici anni, sicuro di perderle a favore di Hamas. La sua popolarità presso i palestinesi è scesa sotto la suola delle sue scarpe e a poco è servita l’esortazione rivolta a Joe Biden perché fermi la guerra. Hanieyeh, è figura rappresentativa e spendibile all’estero, ma non decide nulla, prigioniero del radicalismo conservatore che fa di Gaza una sicura enclave di potere proprio per il suo isolamento fisico dal resto dell’area.
Balugina in questi frangenti come un’irraggiungibile fenice la ben nota formula 'Due popoli e due Stati'. E oltre che nota sarebbe anche la più logica.
L’unica che potrebbe (al condizionale) porre fine almeno in parte a uno scontro di culture e di tradizioni che dura da oltre settant’anni fra due popoli che hanno più similitudini che differenze, ma che ora – ed è una novità anche questa a marcare il cambio di passo cui si accennava – vengono anche alle mani per le strade delle città e dei villaggi, regalandoci qualcosa di molto simile a una guerra civile. Tuttavia, è inutile negarlo, questa guerra assicura ai rispettivi leader un prolungamento della loro longevità politica. Ad Hamas, per continuare a esistere e rimettere sotto i riflettori la questione palestinese emarginata dagli Accordi di Abramo arabo-israealiani; a Netanyahu, per rimanere al potere: l’ennesima grande coalizione che alla quinta scoraggiante consultazione elettorale lo voleva spingere ai margini della politica è già miseramente franata sotto l’urto dell’emergenza bellica.
Per fare la pace con i palestinesi – gli israeliani lo sanno bene, come lo sapeva Yasser Arafat – occorrono uomini forti. Come Ariel Sharon, o come, appunto, Bibi Netanyahu. Capi pronti a perdere la battaglia sul fronte dell’opinione pubblica (i palestinesi peraltro sono maestri nel valorizzare mediaticamente al massimo grado le proprie vittime) per vincere quella politica. Sullo sfondo però s’intravede un terzo incomodo. Che non è la Turchia (i piani di Erdogan per governare quel conflitto accrescendo la propria influenza sono falliti) e non sono nemmeno gli Emirati del Golfo, attratti dalla ghiotta prospettiva economica offerta loro dagli Accordi di Abramo. Il terzo incomodo è Teheran, l’unico vero alleato di Hamas.
E poco importa che una nazione sciita venga in soccorso di una fazione sunnita: il nemico comune, Israele, val bene la scelta. Quando tacerà il cannone e si conteranno le vittime di questa ennesima guerra, più vera che mai e come sempre pagata dagli innocenti, non sarà ai palestinesi ma all’Iran che Israele continuerà a guardare. Al più deciso e pericoloso dei suoi avversari. Chi fa e farà la guerra si sa. Chi può fare la pace ancora no.