Il direttore risponde. Pescatori, marò e poche certezze
leggo con stupore una lettera in questo spazio di Avvenire, dove si dà quasi per scontato che i due marò italiani abbiano ucciso due inermi pescatori, e si prospettano i fatti in una maniera unidirezionale. Penso che sia invece giusto dire le cose come effettivamente sono state riportate da tutti i media: non è sicuro che l’incidente nel quale hanno perso la vita i due pescatori, sia lo stesso che ha visto coinvolti i due marò. Non è stato accertato se effettivamente i due pescatori non fossero anche pirati, visto che agivano in mare aperto, in acque internazionali e da soli. Sono modalità normali per esercitare la pesca? Premesso che le famiglie dei pescatori, hanno avuto una donazione pari a circa 150 mila euro ciascuna, alle famiglie dei marò invece non pensa nessuno. Se poi vediamo come hanno agito le autorità indiane, attirando con l’inganno la nave in porto, non facendo partecipare eventuali periti della difesa alle perizie esperite per l’inchiesta... Rinviando per motivi politici elettorali locali le decisioni sul caso, ignorando le normative internazionali che regolano quelle controversie, per ultimo hanno sequestrato il nostro ambasciatore. Tutte cose che violano i diritti umani e quelli internazionali. Ci sono diecimila famiglie di militari italiani in missione all’estero, che hanno seguito e stanno seguendo con ambascia questa vicenda, che hanno il diritto di avere certezza e solidarietà e soprattutto la certezza che il diritto tuteli tutte le parti in causa e non solo una.
Romolo RubiniCaro direttore,
sarà perché sono stato io stesso un militare – e tale ancora mi sento – e, senz’altro di più, perché sono profondamente italiano, alla notizia che i nostri due marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, sarebbero stati rispediti in India mi sono sentito ribollire il sangue. Già in precedenza ero rimasto basito nel constatare l’estrema leggerezza con cui la nostra classe politica aveva, sin dalle primissime battute, gestito l’intera vicenda: da prima, adottando delle strategie, fondate sull’inconsistente asserto che l’India ci fosse nazione amica, risultate assolutamente inefficaci e tradottesi in un’odissea per i nostri due marò; poi, prendendo la sorprendente decisione di trattenere gli stessi in Italia alla scadenza del permesso per loro concordato con la controparte, venendo così meno alla parola data, infangando il buon nome del nostro Paese e condannando tutti gli italiani a subirne le conseguenze. Il tutto, senza saper trarre alcun vantaggio dalla palese e ripetuta violazione indiana delle più elementari norme di diritto internazionale, né avvalendosi della copertura che l’Unione Europea, titolare della «missione antipirateria» che vedeva coinvolti i nostri militari, avrebbe potuto e dovuto offrire. Questo, per la presunzione di poter gestire la controversia da soli, mettendo i vari organi internazionali di fronte al fatto compiuto. Mi turba, soprattutto, il disgustoso e continuo mercanteggiare con l’India giocato 'sulla pelle', oltre che sulla libertà, di uomini obbedienti servitori dello Stato: i due marò, prima e l’attuale ambasciatore italiano in India, Daniele Mancini, poi. Uomini ai quali, peraltro, non è stato riconosciuto lo stesso peso, risultando evidente che i militari sono stati e sono considerati 'spendibili e sacrificabili', molto meno il diplomatico. A Salvatore Girone, Massimiliano Latorre e alle loro famiglie tutta la mia solidarietà e ammirazione per il loro encomiabile comportamento.
Silvio Mazzaroli, alpino Generale C.A.
già comandante del Contingente italiano in Mozambico e vicecomandante Nato in Kosovo
Nella tristissima vicenda che coinvolge i marò italiani Girone e Latorre, c’è molta (procurata) confusione, i dati certi invece non abbondano. Certo è, però, gentile signor Rubini, che le due vittime indiane – semplici pescatori appartenenti all’antica minoranza cattolica del Kerala – non erano pirati. Certo è, purtroppo, che le loro poverissime famiglie non hanno ricevuto i soldi di cui lei parla (circa 145mila euro per ciascun nucleo), perché la giustizia – faccio davvero fatica a definirla tale – indiana ha impedito che fosse loro indirizzata la «donazione» decisa da parte italiana. Questo, caro amico, per dirle ciò che non trovo esatto nella sua ricostruzione dei fatti, ma anche per rimarcare un punto chiave su cui concordo: nello strano e sincopato infuriare della guerra politico-diplomatica India-Italia, le «parti in causa» poco o nulla tutelate sono più d’una. Sinora, in questa storia, abbiamo visto poca giustizia, poca solidarietà, poca umanità e dosi d’urto di strumentalizzazione politica, in Italia come in India, dove i due morti cristiani sono stati (e verranno ancora) cinicamente 'usati' da politici nazionalisti portatori di una visione fondamentalista dell’induismo. L’abbiamo scritto più volte, sottolineando che è sui più piccoli e poveri (oltre che sull’immagine dei due Paesi) che pesano maledettamente gli errori commessi da Roma e da Nuova Delhi nella gestione di una tragedia che è stata fatta diventare un 'caso'. Errori che lei, caro generale Mazzaroli, rileva in modo lucido e giustamente severo. Per questo, da cittadino italiano, mi consento una riflessione ad alta voce sulla condizione d’incertezza in cui sono state precipitate le famiglie dei nostri militari impegnati in missioni di pace all’estero. Prima di tutto, ribadisco che alle vittime indiane va resa giustizia, con un processo ai due marò sotto accusa nella sede propria, che è italiana, e con ogni possibile (per quanto sempre inadeguato) indennizzo ai familiari dei due pescatori uccisi. In secondo luogo, ma il punto è davvero di primaria importanza, ritengo che la violazione del diritto internazionale da parte dell’India abbia creato un precedente assai grave e questo, se non interverrà un esemplare 'ravvedimento operoso' da parte dell’India stessa, minaccia di non consentire più una presenza 'certa' dei soldati italiani (e non solo) all’estero. L’Italia avrebbe dovuto far pesare questo fatto, mettendo sul piatto il motivato ritiro delle nostre Forze armate dai Paesi e dalle operazioni dove oggi sono impegnate in missione sotto bandiera Onu o per conto della Ue. Sinora non è stato fatto, ma siamo ancora in tempo. Perché le parole date si rispettano, e tutti – ma proprio tutti – devono farlo.