Il recente Vertice tra Stati Uniti e i dieci membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico (Asean), ospitato da Barack Obama nella residenza di Sunnylands in California, ha avuto molti temi in paniere. Primo fra tutti, l’inquietudine che le pretese di Pechino sul Mar cinese meridionale stanno propagando nella regione, centrale nella nuova strategia Usa. A fare da sfondo, tuttavia, anche la legge che attende l’approvazione presidenziale, la quale consentirebbe di proibire il commercio di prodotti da Paesi che utilizzano minori nelle miniere (Sudafrica), donne in condizione di sfruttamento nel tessile (Bangladesh) e lavoratori in stato di schiavitù nell’industria ittica della Thailandia, tra i Paesi Asean. Per quest’ultimo caso, particolarmente imbarazzante dati i tradizionali rapporti economici e strategici tra le due nazioni, a sollecitare un intervento presidenziale, anche un documentato servizio dell’agenzia di stampa Associated Press dello scorso anno, che ha confermato come prodotti della pesca e di vivaio destinati al mercato americano vengano nel Paese asiatico raccolti e trattati soprattutto da immigrati birmani, cambogiani e vietnamiti con pochi diritti e gravi rischi. Una situazione quella evidenziata dalla Ap, confermata lo scorso novembre da un’inchiesta affidata da Nestlé a Verité, società statunitense specializzata nella certificazione della trasparenza delle attività aziendali. Dall’indagine, frutto di 12 mesi di ricerche, era emerso che il cibo per gatti distribuito in varie forme da Nestlé negli Usa con il marchio Fancy Feast era frutto del sudore e, in diversi casi, del sangue dovuto allo sfruttamento del lavoro di immigrati nell’industria della pesca thailandese. Immigrati che sono sovente oggetto anche di una vera tratta di esseri umani. Di conseguenza, il colosso svizzero dell’alimentazione ha bloccato l’approvvigionamento nel Paese asiatico, avvertendo che nessun’altra azienda che si rifornisca in Thailandia, terzo esportatore mondiale del settore, potrebbe evitare di trovarsi nelle sue condizioni. La reazione era stata immediata, con un intervento del governo e delle organizzazioni imprenditoriali thailandesi, che aveva portato all’arresto di alcuni trafficanti, alla liberazione di oltre 2.000 individui tenuti prigionieri su imbarcazioni-carcere e il sequestro di pescherecci e prodotto per milioni di dollari. Il rapporto di Ap è stato il colpo d’ariete al muro di silenzio e omertà che circonda la sorte di migliaia di individui in condizione di sostanziale schiavitù. La Thailandia è il terzo esportatore di prodotti della pesca al mondo, una posizione raggiunta – come è stato ampiamente documentato – anche con lo sfruttamento delle risorse marittime oltre ogni tolleranza e abusi senza precedenti verso i lavoratori immigrati. Quello americano non è il solo fronte di critica e indagini ora aperto verso il Paese asiatico, tradizionalmente percepito e trattato come aperto e amichevole, ma con crescenti limiti politici, culturali e strutturali che ne minano innovazione e integrazione. Con conseguenze che rischiano di aggravare le difficoltà di una economia cresciuta solo del 2,8 per cento nel 2015, a fronte di investimenti scesi lo scorso anno del 78 per cento sul 2014 e di un export, determinante per il mix economico produttivo (industriale e agricolo) e per il benessere del Paese, in caduta libera. Apparentemente, l’abitudine locale di correre ai ripari quando la pressione esterna acquista sostenute valenze economiche più che etiche, sembra ora soverchiata dalle sfide molteplici sui piani locale, regionale e globale. Da due anni, 2014 e 2015, il Paese è relegato al terzo livello, l’ultimo, nel Rapporto del Dipartimento di Stato Usa riguardo l’impegno governativo a combattere una casistica di abusi ampia, documentata ma per lungo tempo ignorata. Per molti inattesa perché occultata accuratamente, in particolare per non intimidire i turisti che 'valgono' con l’indotto il 20 per cento del Pil annuale. Una situazione aggravata dalla presa di potere militare il 22 maggio 2014 e per la censura che impedisce un dibattito interno e non consente di creare una condizione condivisa di impegno contro gli abusi. Come per altri ambiti, l’uso di rappresaglie legali consentite dalla legislazione in vigore, che implicano estenuanti cammini giudiziari e il rischio di elevate pene pecuniarie in alternativa e periodi detentivi se condannati, sono forti disincentivi alla denuncia. Azioni che finiscono comunque con il diventare pubbliche su blog, chat e social network prima di passare ai mass media, con già pesanti danni di immagine e, in modo crescente, economici. Bangkok dapprima ha bloccato per molti mesi i due terzi della flotta peschereccia al centro della casistica di abusi segnalata da più parti (tra cui rapporti di Reuters, Amnesty International e Human Rights Watch...) per convincere della propria buona volontà l’Unione Europea. L’Ue, infatti, ha da tempo aperto un fascicolo sui danni che sono corrispettivo dell’importazione massiccia di prodotti ittici dal Paese, di cui è secondo cliente per un valore che sfiora il miliardo di dollari. Le autorità thailandesi hanno poi annunciato l’11 febbraio di avere registrato 70mila stranieri finora senza documenti legali occupati nell’industria ittica. Una conferma, per il portavoce del ministero degli Esteri, che «la questione è parte dell’agenda nazionale e che il primo ministro ha da tempo segnalato la tolleranza zero in questo ambito». Per fonti della stessa giunta militare, che coesiste oggi con un governo e istituzioni civili che gestiscono il Paese in vista di elezioni forse possibili nel 2017, sarebbero complessivamente 200mila gli stranieri impiegati, facilmente sfruttabili nella loro condizione irregolare, peraltro finora ignorata dalle autorità. Come comunicato dal Comandante Piyanan Kawmanee, parte della task force della Marina militare incaricata di colpire gli abusi, tra gli immigrati individuati nel settore, circa 50mila lavorano in impianti a terra, gli altri sulla flotta peschereccia. Tra i successi della politica governativa di maggiore attenzione alle questioni etiche e ambientali, la revoca dei permessi di pesca a 8.000 imbarcazioni. A motivo sia di casi d’abusi sui lavoratori, sia per l’altra maggiore questione su cui l’Ue sta lavorando ai fianchi Bangkok: l’irregolarità delle modalità di pesca che devasta l’ecosistema marittimo nazionale e regionale. Il "cartellino giallo" mostrato da Bruxelles lo scorso anno potrà evitare il passaggio al rosso se gli ispettori inviati in Thailandia confermeranno che molto è stato fatto e molto ancora si farà.