Coronavirus. Pericoloso effetto-covid anche sui paradigmi bioetici
Non sono pochi i bioeticisti che da qualche tempo sostengono una tesi provocatoria: la pandemia di Covid- 19 avrebbe definitivamente fatto emergere le contraddizioni implicite nei paradigmi fondamentali della bioetica, mettendo in crisi irreversibile le stesse strutture concettuali di questa disciplina.
Queste strutture andrebbero ricondotte essenzialmente a due modelli teorici, accanitamente studiati e messi a fuoco grazie ad anni e anni di lavoro e di dibattiti: il modello 'principialista' e quello 'utilitarista'. Ambedue però uscirebbero sconfitti in epoca di pandemia, nessuno dei due sembrerebbe in grado di fornire criteri convincenti per affrontare le gravissime questioni che il nuovo coronavirus ha fatto esplodere. Il principialismo imporrebbe infatti ai bioeticisti l’onere di determinare valori assoluti e inderogabili (i cosiddetti 'princìpi non negoziabili'), per poi misurare su di essi le scelte da assumere in materia di 'vita'.
Non si tratta ovviamente di illudersi che tale paradigma non attivi tensioni, anche molto aspre (i dibattiti pluridecennali in tema di aborto volontario ce ne danno prova), ma semplicemente di prendere atto che una volta messo a fuoco un 'principio' come inderogabile, si tratterebbe semplicemente di applicarlo con coerenza, anche se a volte tale coerenza imporrebbe decisioni strazianti (stabilita, per esempio, l’assoluta sacralità e intangibilità della vita, la bioetica imporrebbe la scelta, in molti casi davvero eroica, di tutelare tutte le forme, anche le più estreme, di invalidità sociale, biologica e mentale). Il problema è che lo sviluppo vorticoso della medicina moltiplica a dismisura e garantisce a un numero sempre crescente di malati lunghissime forme di sopravvivenza, in situazioni di invalidità che fino a sole due generazioni fa portavano rapidamente a morte. In tal modo si risolvevano su di un piano naturalistico, tristissimo, ma accettato da tutti, problemi che oggi ci appaiono non solo eticamente tragici, ma tali da apparire insolubili.
I bioeticisti principialisti, a parte i più ingenui e i più dogmatici, sanno che nessun sistema familiare, sociale e sanitario è ormai in grado di controllare queste dinamiche e non sono in grado di dare risposte convincenti alle mille domande angosciose che vengono loro rivolte da una società civile, sempre più drammaticamente, sterilmente e costosamente medicalizzata: essi continuano a difendere con severità e nobiltà la sacralità della vita (e sotto questo profilo sono meritevoli di ogni elogio), ma sanno anche che questa difesa non riesce più a incarnarsi nell’epoca in cui ci sta toccando di vivere, non riesce più a diventare cioè storia 'vissuta'. Non molto diversa è la situazione in cui si trovano i bioeticisti che si riconoscono nel paradigma opposto, quello utilitarista. Rispetto al principialismo, l’utilitarismo sostiene che si debba sempre operare non per applicare alla realtà concreta nobili ma astratti 'princìpi', ma per beneficiare, quale che sia la situazione empirica in cui ci si trovi, il maggior numero possibile di persone. Si tratta, come appare sulle prime evidente, di un criterio di assoluta ragionevolezza... a condizione però di sapere quali calcoli fare e soprattutto di poterli far bene.
Se gli ammalati di Covid fossero talmente tanti da non poter essere accolti tutti in ospedale e tra loro ci fosse un solo medico, dargli la priorità nelle cure e nelle terapie sugli altri ammalati sarebbe ragionevole, se si avesse la certezza che, una volta guarito, egli potesse controllare e limitare la diffusione della pandemia. Ma come conquistare questa certezza? E a chi affidare una scelta così tragica? Potremmo fare molti altri esempi, dato che l’emergenza Covid-19 moltiplica simili dilemmi e orienta ormai la maggior parte dei bioeticisti utilitaristi a risolvere simili questioni (e altre ancor più intricate) facendo riferimento alla deontologia personale e alla coscienza individuale dei singoli medici: soluzione certamente comprensibile, ma nello stesso tempo sfuggente (per dir così) e da molti ritenuta addirittura furbesca.
Di qui il diffondersi dell’opinione (comprensibile, ma pericolosa) secondo la quale la bioetica si starebbe ormai sfaldando, ripercorrendo un itinerario simile a quello già percorso dalla filosofia morale: incapace di tematizzare adeguatamente il 'bene' in senso oggettivo, la filosofia morale si sarebbe ormai ridotta a presentare all’opinione pubblica le molteplici e molto diversificate immagini del 'bene', elaborate (spesso con arroganza) da singoli filosofi, senza peraltro riuscire a imporne nessuna come centrale e unificante. Analogamente, incapace di tematizzare adeguatamente il 'bios' e le sue contraddizioni, la bioetica starebbe ormai percorrendo molti, diversi sentieri, tutti suggestivi, ma tutti anche incapaci di portare coloro che li percorrono ad una meta che li accomuni.
Come, insomma, ad avviso di molti, l’etica sarebbe ormai evaporata, abbandonando ogni pretesa e ogni appello alla verità, così starebbe ormai evaporando la bioetica, con buona pace dei tanti comitati, locali, nazionali e internazionali che cercano di farla sopravvivere, ossigenandola in continuazione. È una conclusione molto conturbante, questa, con la quale dovremo tornare a fare seriamente i conti.