Opinioni

Analisi. Perché Israele sceglie la linea dura e non teme il danno di reputazione

Barbara Uglietti sabato 6 aprile 2024

Il primo ministro israeliano Benjamim Netanyahu

Da mesi si rimprovera a Israele una durezza sproporzionata nell’operazione a Gaza e ci si chiede come un Paese evoluto e democratico possa rischiare un danno reputazionale senza precedenti causando tanta sofferenza alla popolazione palestinese. L’assunto è sufficiente ad alimentare l’ondata di antisemitismo cui stiamo assistendo in tutto il mondo, mentre il 7 ottobre è lontano, archiviato come una casualità (o causalità, a seconda dei punti di vista) da citare tutt’al più come salvacondotto. Il rischio di isolamento internazionale del Paese viene utilizzato come un’arma, una minaccia, da nemici e detrattori. Mai, o quasi, il problema viene inquadrato da una prospettiva interna.

E solo con difficoltà si rileva come tanta parte della popolazione stia mettendo in critica la gestione della guerra del governo Netanyahu (centomila persone in piazza a Tel Aviv solo domenica) spingendo per un’alternativa. Gli israeliani registrano la sconnessione dal mondo, ne patiscono gli effetti. Ma faticano a “spiegarsi” e a “spiegare”, soprattutto a chi ha poca voglia di capire, quasi ci fosse un difetto di linguaggio che rallenta o addirittura impedisce la comunicazione. E che finisce con il rafforzare la solitudine di un Paese fin troppo abituato a fare da sé.

Il gap è antico, si sa, e tutti i governi hanno cercato di porvi rimedio. C’è addirittura una parola in ebraico, hasbarà, che identifica in un modo difficilmente traducibile il preciso sforzo di divulgazione, iniziato anche prima della fondazione dello Stato: la radice è quella del verbo “lehasbir”, spiegare, e indica il tentativo di diffondere la visione israeliana partendo appunto dalla consapevolezza di essere capiti poco o per nulla. L’attività non corrisponde alla propaganda (da cui peraltro Israele, come ogni altro Paese, è tutt’altro che immune) perché non punta a imbellettare le operazioni in un determinato conflitto o in una data situazione ma solo a rappresentarle, descriverle, chiarirle, per buone o cattive che siano (persino più spesso la seconda).

A metà marzo Benjamin Netanyahu, durante una riunione della Commissione Difesa e Affari esteri della Knesset, ha detto che «Israele certamente non sta facendo abbastanza per spiegare la sua narrativa al pubblico americano» (erano i giorni delle proteste nella università e delle perplessità di Biden sull’offensiva a Rafah). Anshel Pfeffer, tra i più incisivi editorialisti di Haaretz, ha commentato che in effetti l’hasbarà del premier non sta funzionando, ma che si tratta di una buona notizia: se fare hasbarà significa esporre ciò in cui credi senza porti domande difficili sui tuoi errori - questo il suo ragionamento - meglio evitare l’hasbarà. Ecco: gli israeliani stanno cominciando a porsi domande difficili. Che marcano la distanza (quasi irrecuperabile) con il loro governo. E che in fondo sono le stesse del mondo giudicante. C’è insomma un’altra spiegazione, un’altra versione, che probabilmente bucherebbe la bolla di ostilità della comunità internazionale, ma che non riesce a oltrepassare il confine.

Nessuno, o quasi, nel Paese, mette in dubbio la necessità di farla finita con Hamas. Il massacro del 7 ottobre ha minacciato l’esistenza stessa dello Stato. L’esercito è chiamato a tutelare la sicurezza di nove milioni di persone (sette milioni di ebrei più due milioni di arabi) che vivono in una regione (440milioni di musulmani) non propriamente amichevole. La sicurezza di Israele ha sempre poggiato sul concetto di deterrenza. Il potenziale contagio della rivolta estremista - non solo in Cisgiordania ma in tutti i Paesi confinanti - è stato percepito come un pericolo esistenziale; l’intervento militare come necessario. Sei mesi dopo, 33mila morti a Gaza (cifre di Hamas) sono un dato oggettivo e irricevibile. Quel che sfugge è che a denunciarlo sono gli stessi israeliani. E che tanta parte del Paese sta cercando risposte sulla conduzione conflitto. Ma rimane inascoltata.

L’atteggiamento dei governi israeliani verso i consessi mondiali (e viceversa) certo non aiuta. Per molte ragioni, storiche e culturali, il rapporto con le istituzioni internazionali è sempre stato complicato, inquinato da incomprensioni e reciproca diffidenza. C’è una frase, entrata d’ufficio nello slang israeliano, che lo riassume con efficacia. Fu pronunciata nel 1955 dall’allora ministro della Difesa David Ben Gurion: era in discussione il suo piano per togliere la Striscia di Gaza all’Egitto in risposta a una serie di attacchi terroristici nel Paese. Fu posta l’attenzione sulla probabile reazione negativa delle Nazioni Unite e Ben Gurion sbottò: «È stata l’audacia degli ebrei a fondare lo Stato, non una decisione di quell’Um-Shmum». Um-Shum è il gioco di parole non propriamente encomiastico con cui ancora oggi in Israele, se ci sono in gioco questioni vitali per lo Stato, ci si riferisce all’Onu (“Um” in ebraico) abbinandogli il prefisso “Shm” che marca la presa in giro cose o persone. Nei 76 anni della sua storia il Paese è finito decine di volte sotto la lente dell’organismo e non si contano le risoluzioni di accusa/condanna. Quasi sempre inefficaci. Il veto dell’alleato americano in Consiglio di sicurezza ha protetto 42 volte (sulle 83 in cui è stato espresso dal 1946) Israele da provvedimenti vincolanti. La storica astensione Usa sulla risoluzione del 25 marzo per il cessate il fuoco a Gaza ha rappresentato sicuramente uno spartiacque, ma, a voler guardare dentro le cose, il messaggio lanciato (anche per contingenze elettorali) dall’Amministrazione Biden ha costituito un segnale molto specifico indirizzato al solo Netanyahu. Non a Israele.

È stata una scelta politica di campo. Non può essere un caso che pochi giorni prima il leader centrista Benny Gantz, presente nel gabinetto di guerra con posizioni sempre molto critiche rispetto al governo, fosse stato ricevuto a Washington dalla vicepresidente Kamala Harris (in una missione non autorizzata dal premier); e che nelle stesse ore in cui si votava il provvedimento a New York, il ministro della Difesa Yoav Gallant – sempre più lontano da Netanyahu, sempre più vicino a Gantz - si trovasse alla Casa Bianca per colloqui sul contrasto di Hamas.

Il miope fervore con cui la risoluzione è stata accolta da tanta parte dell’opinione pubblica occidentale, che ci ha voluto vedere soltanto la clamorosa spallata a un Paese finalmente solo e sul punto di essere spazzato via, la dice lunga sullo sguardo pregiudiziale tipicamente riservato agli accadimenti che coinvolgono Israele. Una distorsione che come mai prima trova rappresentazione nelle proteste trasversali alla comunità accademica, con le richieste di interruzione delle collaborazioni scientifiche con il Paese.

Siamo di nuovo nel campo di una partita tutta giocata sul fraintendimento. Che ha radici antiche. Secondo Claudio Vercelli - storico contemporaneista che ha dedicato gran parte della sua attività divulgativa al conflitto israelo-palestinese - quando si guarda a Israele, in Europa e in Italia, non si lavora tanto sui dati concreti quanto sulle rappresentazioni, sui simbolismi. «L’atteggiamento isterico all’interno delle università contro Israele non va a favore dei palestinesi ma di un’ipotetica idea di palestinesi - sottolinea Vercelli -. C’è un conflitto di immagine, tra caricature ideologiche. E vi si può leggere una specie di rivalsa da parte di alcuni gruppi sociali». Ci sono tendenze che richiamano elementi del passato. «Aspetti rilevanti dell’antisemitismo si sono trasferiti in maniera “elegante” nella vulgata antisionista. Tutto un apparato di pregiudizi antisemitici si stanno riflettendo nel rigetto dello Stato di Israele, odiato come “ebreo collettivo”. Un processo che raccoglie in sé tutti gli aspetti negativi che l’antisemitismo fino al 1945 attribuiva agli ebrei come tali».

Non solo l’antisemitismo sterminazionista, ma anche l’antisemitismo “da salotto”. Vercelli porta però all’attenzione il fatto che i soggetti vocati all’autoritarismo si nutrono esattamente di questo. «La narrativa dell’attuale governo israeliano perpetua la visione non solo di se stesso ma di tutto il Pease come una sorta di paria internazionale. Si tratta di un gioco speculare che andrebbe rotto». E che invece viene alimentato proprio da chi punta sull’isolamento di Israele. Finendo per utilizzare la leva più sbagliata.