Non so se quella dell’aborto possa essere ridotta a una questione "lessicale" e se etichette da tempo consolidate come "pro-vita" o come "abortista" meritino o no di essere lasciate cadere. Apprendo però con un certo interesse (mettendo tra parentesi il fatto che simili dichiarazioni sono state fatte nelle ultime ore di una campagna elettorale finalmente conclusasi) che Adriano Sofri si offende se lo si qualifica come "abortista" e che egli ritiene che anche Emma Bonino abbia buone ragioni per offendersi (vedi
Il Foglio di sabato 27 marzo). Per quale ragione? Perché egli ritiene che merita di essere definito "abortista" solo chi apprezza l’aborto «in odio all’umanità e alla vita in genere» o «come strumento di limitazione delle nascite». Sofri si dichiara invece contro l’aborto e ritiene auspicabile e lodevole tutto ciò che aiuta a sventarlo, «con l’unico limite di non coartare la libertà personale delle donne». Sembrerebbe coerente che Sofri (e la Bonino, se è vero che la pensa come lui) fossero allora ostili sia alla pillola del giorno dopo sia alla Ru486. Sappiamo bene che non è così. Eppure la piena disponibilità sia dell’una che dell’altra pillola (senza discutere dei loro specifici effetti, molto diversi tra loro) induce obiettivamente le donne a banalizzare le loro eventuali scelte abortive; cercare di ridurne l’uso, rispettando oltre tutto i ben precisi paletti previsti dalla legge sull’aborto, sarebbe indubbiamente un modo molto efficace per aiutare a "sventare" quelle scelte abortive che Sofri sembra deprecare. Ma la vera contraddizione di Sofri non è questa. Sappiamo che l’aborto oggi non ha (tranne ipotesi rarissime!) autentiche motivazioni "terapeutiche": esso è di fatto la più comune modalità utilizzata dalle donne per rifiutare una maternità non voluta. Questo dato di fatto è la più grande piaga aperta del mondo contemporaneo, perché implica una sorta di rifiuto, da parte delle donne, di quanto di più specifico contrassegna la loro identità femminile. Presumo quindi che Sofri percepisca questo come un grande problema e in qualche modo ne soffra, proprio per il fatto che egli rifiuta come insultante la qualifica di "abortista". Egli però coniuga questo rifiuto con un altro esplicito rifiuto: quello di «coartare la libertà personale delle donne». È da più di trent’anni, da quando è entrata in vigore la legge sull’aborto, che la libertà delle donne non è più coartata dalla legge. A quanto mi risulta, non esiste oggi un partito o un movimento di opinione, nemmeno tra quelli che esplicitamente si considerano di ispirazione cristiana, che chiedano che si scelga la "criminalizzazione" legale di chi abortisce: su questo punto tutti – Sofri e Bonino in particolare – dovrebbero sentirsi tranquilli. Ma chi, come Sofri, ritenga offensivo essere qualificato come "abortista", dovrebbe impegnare tutto se stesso in una campagna anti-abortista, di carattere non penale, ma intellettuale e morale: una campagna che operasse nella società civile a favore del rispetto per la vita e dell’identità femminile come identità (almeno potenzialmente) materna. Su questi temi il silenzio non solo dei radicali, ma di tutti i "laici", in Italia così come in altri Paesi, è assordante. Eppure, la questione è elementare: se è lodevole (lo scrive Sofri) sventare l’aborto, non può che essere lodevole la maternità. Siamo in grado di ribadire ad alta voce un concetto nello stesso tempo così profondo e così semplice? Chi voglia sinceramente non essere qualificato come "abortista" dovrebbe sentire il dovere di farlo.