La cittadinanza mai riconosciuta. Così neghiamo il sangue degli «afropei»
Il voto quasi unanime al Senato per concedere la cittadinanza a Patrick Zaki offre lo spunto per portare alla ribalta una questione sulla quale il Parlamento può ritrovare analoga unità d’intenti. Quella degli almeno 300 discendenti dei meticci che vivono in Eritrea, la 'colonia primigenia', in perenne attesa di diventare italiani.
Per molti di loro la cittadinanza è fondamentale. Nel piccolo Paese sul mar Rosso, in cui dal 2001 il regime ha soppresso le libertà democratiche e istituito il servizio di leva a vita provocando l’esodo continuo della gioventù, avere un passaporto italiano significa libertà di movimento senza ricorrere ai trafficanti sulle maledette rotte migratorie e significa poter stare in Italia da cittadino e non da rifugiato. Perché paradossalmente è accaduto che discendenti di meticci eritrei abbiano dovuto chiedere asilo per restare nel Paese dal quale proveniva il nonno o il bisnonno.
La vicenda è stata sollevata in passato dal padre eritreo Protasio Delfini e oggi dal giornalista Vittorio Longhi, a sua volta 'afrodiscendente', nipote di meticci riconosciuti dal padre, un ufficiale di stanza a Massaua poi sparito in Somalia a fine ’800. Longhi ha raccontato la sua complicata vicenda famigliare nel libro 'Il colore del nome' che ricorda come il Belpaese nel dopoguerra non abbia mai voluto fare i conti con il proprio passato coloniale per la fretta di cancellare il ventennio fascista. Una rimozione che continua oggi con la brutta abitudine di sacrificare parti importanti del programma scolastico di storia del ’900 in molte scuole superiori italiane, vanificando così i grandi passi avanti compiuti in mezzo secolo dalla storiografia italiana e relegandoci al ruolo di cenerentole culturali in Europa quanto a conoscenza dell’Africa e del nostro passato. In sintesi, non è vero che gli italiani furono tutti 'brava gente' in colonia.
Le aggressioni all’Etiopia e le stragi dei ribelli nel Corno d’Africa e in Libia, la segregazione delle popolazioni locali come il 'madamato' – la convivenza con ragazzine soprattutto in Eritrea di uomini spesso già coniugati e padri di famiglia in patria – sono solo alcuni esempi. Molti connazionali nei decenni coloniali fecero figli con le 'madamine' e non li vollero riconoscere. Poi intervennero le leggi fasciste a scoraggiare e, dopo il 1938, a impedire il riconoscimento. Quando i padri partivano per tornare a casa prima e dopo la guerra lasciavano in dono alla famiglia africana non riconosciuta soprattutto sofferenze ed emarginazione, perché madri e figli abbandonati erano lasciati ai margini dalle due comunità. Certo, il rapporto con la 'nostra' Africa è molto più complesso e non va letto solo con gli occhiali del terzo millennio.
Le infrastrutture e le case rimaste in Eritrea come in Etiopia, Libia e Somalia furono costruite dagli italiani per se stessi, ad esempio, ma non vennero smantellate quando questi tornarono, come costume del colonialismo inglese. Un certo legame culturale è rimasto per le affinità tra i nostri lavoratori e quelli eritrei. E nel dopoguerra, soprattutto nel-l’Eritrea annessa dall’Etiopia del Negus, imprenditori, commercianti e lavoratori italiani seppero creare lavoro, ricchezza, sviluppo. Senza contare il lavoro della cooperazione, dei missionari e di tante Ong che in questi 70 anni hanno lavorato con e per le comunità più povere. Ma a differenza di altri Paesi che hanno accolto i figli delle colonie creando gli 'afropei', l’Italia ha archiviato il passato insieme alle domande di riconoscimento.
Dopo tanti anni Il tema dei 300 meticci italoeritrei è doloroso. Non è alternativo, semmai complementare alla riforma della cittadinanza da concedere anche per ius soli e ius culturae ai figli di migranti nati in Italia e che qui abbiano studiato, è invece una questione di ius sanguinis vigente nella nostra legislazione. La storia non si cancella e l’Italia, che ambisce a tornare nel Corno d’Africa da protagonista pacifica e pacificatrice, può farlo in modo tangibile, concedendo la cittadinanza a questi pochi nipoti e bisnipoti lontani, rendendoli 'afropei'. Sarebbe un gesto di giustizia che al tempo stesso colmerebbe il vuoto culturale nel quale si inserisce il razzismo che ancor oggi pretende, in tempi globali e in una terra mediterranea e alpina colonizzata fin dall’antichità, di assegnare come negli anni 30 patenti di italianità in base al colore della pelle.