Francia. Perché la vera laicità non è mai rozzo ed escludente semplicismo
«Non possiamo più discutere con gente che rifiuta di mettere per iscritto che la legge della Repubblica è superiore alla legge di Dio». Queste parole le ha pronunciate pochi giorni fa Gérald Darmanin, ministro francese dell’Interno, in un’intervista a margine del dibattito parlamentare sul progetto di legge noto come loi séparatisme in linea con l’esortazione al «risveglio repubblicano» di fronte al «separatismo islamista», lanciata qualche mese addietro dal presidente Emmanuel Macron.
Del resto, nell’intervista citata Darmanin non ha affatto nascosto di riferirsi ad ambienti dell’estremismo islamista. E ha menzionato espressamente tre sodalizi rifiutatisi di firmare la «Carta dell’islam», a sua volta presentata recentemente dal Governo transalpino ed elaborata in collaborazione con gruppi rappresentativi di varie parti del mondo musulmano nell’ambito di un disegno volto a dare un assetto più stabile ai rapporti tra le istituzioni della République e quel mondo, sulla base di un positivo riconoscimento dei princìpi fondamentali dello Stato di diritto e della libertà religiosa.
Sull’opportunità dell’allusione 'mirata' ci si può domandare se sia frutto della delusione da parte di persona convinta di aver davvero cercato un sincero dialogo con tutti o se invece si tratti soltanto di un tentativo di giocare tatticamente con divisioni interne all’insieme dei potenziali interlocutori. Ma la risposta è praticamente impossibile soprattutto per coloro che non hanno una conoscenza diretta del contesto, fortemente segnato dal ritorno della morsa del terrorismo, sempre pronto a fare la sua parte nella spirale perversa che ripropone di continuo una tragica sequenza di odio, violenza, repressione, restrizione delle libertà, in un altrettanto continuo mutamento del punto di ripartenza.
Inquietanti, in ogni caso, nelle parole del ministro sono però l’assolutezza e la perentorietà dell’affermazione di carattere generale: la si riferisca al Dio dell’islam, a quello del cristianesimo, dell’ebraismo o di qualsiasi altra fede. Non a caso le reazioni negative hanno immediatamente accomunato voci di provenienza diversissima, come ha puntualmente documentato il quotidiano cattolico 'La Croix'.
Ed è significativo che nelle critiche, per lo più, non ci si riduca a un mero ribaltamento di quell’affermazione e al ristabilimento di una gerarchia che riconosca la superiorità della legge divina. Certo, per un credente, ciò dovrebbe essere spontaneo, oltre che legittimo; e viene subito in mente la sfida coraggiosamente lanciata al Sinedrio da Pietro e Giovanni, come riferita negli Atti degli apostoli. Troppo alto, però, e non immaginario, è il rischio di una sua strumentalizzazione che svilisca la legge civile, tanto più se si pensa alla tendenza – quante volte espressasi un po’ dovunque, nel dipanarsi della storia ultramillenaria dell’umanità – a presentare quale legge di Dio qualcosa che a sua volta è soltanto imposizione di uomini.
La complessità delle situazioni che possono presentarsi in concreto, lo sappiamo, è vastissima. Né l’evangelico «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» dà una risposta preconfezionata per ognuna di esse, ma piuttosto è appello a responsabilità da parte delle coscienze, personali e collettiva, da esercitare senza mettere il tornaconto o i pregiudizi ideologici al primo posto. E nel richiamo al valore preminente di una coscienza impregnata di umanità e di misericordia risuona potente, altresì, il grido di Antigone.
Peccato che, nella più opaca (ed escludente)) delle modulazioni del valore della laïcité, si torni invece a indicare quale obbligatoria chiave di soluzione uno slogan ispirato a rozzo semplicismo.