Analisi. Perché la lotta alle fake news non si può fare con gli slogan
Ci sono parole che diventano di moda. All’improvviso irrompono nel nostro quotidiano. Tutti ne parlano, tutti le usano. Sembra quasi non esista altro. E più toccano o definiscono temi importanti e più (a volte) finiscono per essere travolte e stravolte da polemiche, urla, attacchi e contrattacchi, informazione e disinformazione. Un mare di parole che le snatura e le banalizza, finendo per spostare l’attenzione dal vero problema. Prendete le «fake news». Nel giro di poche ore sono diventate il tema principe dello scontro politico. Tutti i politici chiedono che vengano arginate in vista delle elezioni. E già che ci sono, accusano l’avversario di avere costruito e di costruire «fake news». Peccato che ormai il termine «fake news» (letteralmente: notizie false) venga usato spesso a sproposito (anche da loro). Secondo Melissa Zimdars, docente di comunicazione al Merrimack College e promotrice del progetto OpenSources, che studia il fenomeno, «il termine sta a indicare quelle fonti che inventano del tutto le informazioni, disseminano contenuti ingannevoli, distorcono in maniera esagerata notizie vere».
Il termine non c’entra nulla né con la satira né con gli errori (non voluti) di chi fa informazione. E non sono «fake news» gli articoli che trattano argomenti che non piacciono a questa o quella parte politica (cosa che né Trump né Grillo hanno capito, visto che accusano chi li critica di produrre «fake news»). Ormai, ogni imprecisione, ogni informazione sgradita viene bollata come una «fake news». Come un virus da debellare. Come una piaga da curare con ogni mezzo. Tutti noi vorremmo vivere in un mondo «sano», senza «notizie false» e dove non esistono persone e organizzazioni che fabbricano «fake news» per screditare l’avversario o anche solo per arricchirsi. Ma siccome non vogliamo fare troppi sforzi per crearlo, vorremmo sistemi informatici capaci di fermare tutto questo o anche solo norme punitive per i social, come quelle appena approvate in Germania.
È vero: sui social c’è di tutto. E spesso ci sono «fake news». Nessuno viene risparmiato. Nemmeno il Papa. Pochi giorni fa è apparsa su Facebook la notizia che Francesco avrebbe detto: «A Natale non bisogna ostentare i simboli cristiani, offendono i nostri fratelli mussulmani». Una «fake news», commentata seriamente da oltre 3mila persone e condivisa circa 3.500 volte. Il tutto per portare traffico e soldi a un sito di disinformazione, gestito da un aspirante politico udinese (vicino a Forza Nuova) che si era candidato al Consiglio comunale di Udine.
Ma i social non sono l’unico problema. Tra le dieci peggiori «fake news» costruite in Italia contro la presidente della Camera Laura Boldrini, la maggior parte (come da suo video-denuncia) sono tratte da articoli di quotidiani. A peggiorare il tutto, c’è il fatto che il «virus» non è solo italiano, ma mondiale. Secondo il rapporto Freedom on the Net, sulla libertà nella Rete, «la manipolazione e la disinformazione online, nell’ultimo anno, hanno avuto un ruolo importante nelle elezioni di almeno 18 Nazioni, inclusi gli Stati Uniti». Sono invece oltre 30 le Nazioni che negli ultimi 12 mesi hanno utilizzato siti di «fake news», «agitatori d’opinione» o mezzi informatici (come Bot e Botnet, capaci tra l’altro di simulare consensi attraverso falsi profili di utenti) per inquinare il dibattito politico. Nelle Filippine sono state «arruolate» migliaia di persone per difendere e lodare sui social il presidente Rodrigo Duterte. In Turchia 6.000 «troll» sono stati impiegati dal partito AK per manipolare le discussioni online prima delle elezioni. In Francia durante il periodo elettorale sono stati scoperti e rimossi 30.000 account falsi aperti su Facebook.
In Messico invece sono stati usati per manipolare le elezioni 75.000 profili falsi su Twitter. In Tailandia ben 120mila studenti sono stati utilizzati per monitorare e segnalare comportamenti online antigovernativi. Per non parlare della Russia che, secondo Freedom on the Net, impiega 400mila dollari al mese per manipolare la Rete. Il problema quindi va ben aldilà di quelle che vengono definite (spesso in maniera impropria) «fake news». Non a caso un recente rapporto sul tema, pubblicato dal Consiglio d’Europa, non parla di «fake news» ma di «information disorder». La definizione è più lunga e meno affascinante di «fake news», ma molto più corretta: «inquinamento dell’informazione».
Il tema della verità in una società bombardata ogni minuto da una quantità tale di informazioni contrastanti da rischiare di mandarla in tilt è infatti uno dei nodi più importanti del nostro tempo. Perché un’informazione costantemente inquinata (da bugie, mistificazioni, calunnie, aggressioni, mezze verità, depistaggi eccetera) non fa male solo a chi la riceve ma anche a chi la fa (erodendone pesantemente la credibilità). Col risultato che tutto può essere vero o falso, a seconda di quanto ci faccia comodo crederlo. Da noi, solo nelle ultime ore, il Pd ha accusato il Movimento 5 Stelle di creare «fake news» contro Renzi e compagnia, mentre Grillo e tutti i grillini hanno accusato il Pd di avere prodotto «fake news» contro di loro, con la complicità del 'New York Times' e del sito americano 'Buzz Feed'. Con l’inevitabile risultato di moltiplicare la confusione generale sull’argomento.
A vanti di questo passo in Italia la delicata e importantissima questione delle «fake news» diventerà così stucchevole da trasformarsi a sua volta in una «notizia falsa», in una «parola di moda». Qualcosa di cui tutti parlano ma che finisce con il non avere quasi più sostanza. Per questo la questione «fake news» non va lasciata a una politica fatta di insulti, frasi a effetto e promesse impossibili. Se abbiamo a cuore la verità, dobbiamo incominciare davvero a servirla. Ammettendo, per esempio, che non ci sono i tempi tecnici per dibattere e approvare in tempo una legge minimamente decente contro le «fake news». Oltretutto bisogna fare molta attenzione a invocare uno «sceriffo della verità» (anche solo sul web). In una società dove già oggi sono gli algoritmi progettati da società private a decidere gran parte di ciò che leggiamo (e che sappiamo), affidare il potere di decidere cosa sia bene e male a singoli soggetti, rischia di farci scivolare verso territori pericolosissimi, dove sicuramente a vincere non saranno né la verità né la democrazia.