Welfare & famiglia. Perché il Reddito di cittadinanza non funzionerà se rimane orfano
Tutte le forze politiche dovrebbero avere a cuore una misura di contrasto alla povertà che non sembra avere né padre né madre. Dare più peso a famiglie con figli e stranieri
Il nuovo Reddito di cittadinanza avrebbe bisogno, per così dire, di un padre e di una madre. Nel senso di un padre che lo desideri e di una madre che lo faccia nascere e ne sostenga il cammino. Un padre-leader politico che si assuma la responsabilità di lanciarne la proposta e presentarne il progetto. E una madre-maggioranza che con i voti in Parlamento lo faccia approvare, lo renda concreto e gli dia appunto vita. Ad oggi, però, questo padre e questa madre non ci sono.
C’è un progetto, anche dettagliato e ben congegnato, che è la relazione del comitato scientifico per la valutazione del Reddito di cittadinanza, appunto, che martedì ha presentato le conclusioni del suo lavoro. Un po’ in ritardo in verità, non tanto per i nove mesi trascorsi dalla istituzione del team di esperti da parte del Ministero della Previdenza sociale avvenuta a marzo, quanto soprattutto in relazione ai tempi della politica che un comitato, per quanto tecnico, non può non tenere in considerazione. Un grande lavoro come quello svolto dal comitato presieduto dalla sociologa Chiara Saraceno ed esplicitato ora in 10 proposte di miglioramento del Rdc, infatti, sarebbe servito come il buon pane a settembre per evitare l’abbuffata di falsità e polemiche inutili di cui abbiamo dovuto nutrirci a proposito di questo strumento di contrasto alla povertà, tanto indispensabile quanto da correggere, modificare, affinare.
Soprattutto, se presentato anche solo un mese prima, lo studio del comitato scientifico avrebbe probabilmente evitato un’impostazione degli interventi in materia da parte del governo nella legge di Bilancio che vanno in buona parte in direzione ostinata e contraria rispetto a quanto sarebbe necessario. Martedì, presentando il rapporto, il ministro del Lavoro Andrea Orlando si è limitato a definirlo «una base da cui il Parlamento può partire per una riflessione e per ulteriori integrazioni» (a quanto deciso in manovra, ndr), augurandosi che «il centrosinistra ne condivida l’impianto». Un sostegno piuttosto tiepido, non certo un far proprio il progetto che così evidentemente deve tro- vare altre gambe – che non siano quelle dei membri del governo – per camminare. Con il rischio che poi nessuna forza politica abbia l’interesse a intestarsi una battaglia che non sente come davvero propria. Perché, per restare alla metafora dei genitori, questo Reddito di cittadinanza ha un padre naturale, la Lega, che lo promosse e votò quand'era al governo nel 2019 ma che ora lo disconosce totalmente. E una madre naturale, il Movimento 5 Stelle, che pur di non ammettere i suoi errori d’impostazione lascia che alla correzione pensino altri, su aspetti non centrali, ponendo solo qualche inutile paletto identitario e non accorgendosi che così rischia di vederlo snaturato anziché irrobustito.
Intorno ci sono altri 'parenti' scarsamente interessati a prendersene cura, come il Pd che creò il Reddito di inclusione e non votò quello di cittadinanza che lo superava. O peggio Italia Viva il cui unico scopo, oggi, è vendicarsi dei 5 Stelle facendone sparire il nome, e pazienza se a farne le spese saranno i poveri. Eppure è proprio a tutte queste forze politiche, assieme al centrodestra, che dovrebbe interessare far funzionare bene uno strumento di legge per rispondere ai bisogni di 5 milioni di poveri nel nostro Paese. E per farlo funzionare bene non basta certo la stretta immaginata dal governo e messa nero su bianco nella Legge di Bilancio. Assieme a misure utili – come l’allargamento delle offerte congrue al lavoro part-time e a termine, il maggiore coinvolgimento delle Agenzie per il lavoro nella ricerca/offerta di posti o il preventivo incrocio dei dati per evitare le truffe –, infatti, ve ne sono altre che lasciano trasparire un carattere meramente punitivo nei confronti dei beneficiari. Come il décalage dell’importo del sussidio dopo il primo lavoro rifiutato, a prescindere dalla motivazione, e la cancellazione del beneficio alla seconda offerta rifiutata, anche se quest’ultima è possibile in tutt’Italia senza tener conto delle spese di alloggio e trasferimento.
Questioni, queste ultime, che il Rapporto del Comitato tecnico affronta invece in maniera organica, immaginando limiti più stringenti per la congruità delle offerte di lavoro (eliminando tra l’altro la previsione dell’intero territorio nazionale) e gli orari (non meno del 60% di quello standard). E ancora, considerare ai fini del reddito disponibile solo il 60% di quelli da lavoro entro il limite fissato per l’esenzione fiscale (oggi 8.174 euro per i dipendenti, 4.800 per gli autonomi) in maniera da evitare che il beneficio decada subito per chi trova o accetta un lavoro a tempo o poco pagato e incoraggiare i percettori a non restare inattivi. Soprattutto, però, ci sono due punti critici dell’attuale impianto – evidenziati da tempo e da ultimo pure dal Rapporto del Comitato tecnico – su cui la manovra non interviene e che invece sono fondamentali.
Il primo riguarda il requisito del periodo di soggiorno regolare in Italia per gli stranieri extracomunitari. L’attuale previsione di 10 anni è assolutamente sproporzionata, un unicum in Europa, e provoca l’esclusione dal beneficio di 4 famiglie su 10 in difficoltà. Il Rei, a suo tempo, prevedeva 2 anni, più realisticamente il Comitato ne propone 5, un tempo congruo anche per evitare eventuali comportamenti opportunistici. Ma più importante di tutto è la revisione della scala di equivalenza che oggi penalizza le famiglie numerose e i minori nei confronti dei singoli e degli adulti. La proposta, in tre mosse è semplice. Si tratta di: 1) ridurre la soglia di partenza per i nuclei di una persona da 6.000 a 5.400 euro (e con ciò anche di limare l’importo dell’assegno); 2) equiparare, nella scala di equivalenza, i minorenni agli adulti, attribuendo a tutti, dal secondo componente in poi, il coefficiente 0,4 (anziché 0,2 come oggi); 3) portare il valore massimo della scala di equivalenza a 2,8 (2,9 in presenza di persone con disabilità) contro il 2,1 attuale.
Ad oggi, infatti, le scale di equivalenza inadatte, assieme ai vincoli per gli stranieri, sono la causa dell’incongruenza tra poveri assoluti e beneficiari del Reddito di cittadinanza. Solo il 44% dei nuclei bisognosi, infatti, ne usufruisce, lasciando scoperte oltre la metà delle famiglie povere. Mentre, tra le famiglie che ricevono il Rdc, il 36% non è povero, sono i cosiddetti “falsi positivi” che – al netto delle truffe – sono in particolare singoli (41%) o coppie (21%) non considerate povere secondo le misurazioni statistiche, ma che rientrano nei requisiti stabiliti per ottenere il Rdc.
Ci sono poi altre misure di aggiustamento dello strumento, ma mettere finalmente mano a queste due modifiche per non penalizzare le famiglie povere con figli, italiane e non, dovrebbe essere assoluta priorità per tutte le forze politiche che abbiano a cuore un equo ed efficace contrasto alla povertà, al di là delle battaglie di bandiera. Dovrebbe essere interesse comune, del governo e dei partiti tutti. Ma che almeno si facciano avanti un padre-leader e una madre-maggioranza politica per portarle avanti. Subito, emendando la Legge di Bilancio.