Superare lo scontro di civiltà. Perché il dopo viene prima
Rifiutare lo scontro di civiltà? Dopo la tragica aggressione di Hamas e mentre Gaza è sotto le bombe continuano a far pensare le parole di Joe Biden durante il suo viaggio in Israele. Il presidente americano ha espresso piena solidarietà e chiaro sostegno agli israeliani, ma ha anche consigliato loro di non ripetere gli errori degli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001. Le guerre in Iraq e in Afghanistan hanno avuto motivazioni diverse ma sono state ispirate entrambe dalla logica dello scontro di civiltà. Le parole di Biden hanno anche trovato un’eco in quei politici europei e italiani che in questi giorni hanno denunciato il pericolo dello scontro di civiltà tra Occidente e Islam e chiesto di fare di tutto per evitarlo. Ma rifiutare davvero lo scontro di civiltà implica cambiamenti profondi: si tratta di uscire da un tunnel ideologico in cui anche l’Occidente è entrato già alla fine del XX secolo.
Nel caso di Biden, non si tratta di una posizione estemporanea: per quanto dolorosissimo nei modi in cui è stato attuato, il ritiro dall’Afghanistan nel 2021 esprimeva già una critica radicale alla politica americana del ventennio precedente. Riguardo all’Europa e all’Italia, nel 2001 molti hanno applaudito quando Oriana Fallaci lanciava espressioni incendiarie di odio antislamico e in seguito molti hanno sostenuto le guerre in Iraq e in Afghanistan senza poi cambiare più posizione: non c’è un po’ di scontro di civiltà anche in tanti atteggiamenti verso gli immigrati? Ma se si vuole rifiutare davvero tale scontro occorre mettere tutto ciò in discussione. È comunque importante che questo ripensamento sia cominciato.
Non sappiamo i veri motivi – forse più d’uno – per cui la più volte annunciata occupazione di Gaza sia stata rinviata: preparativi necessari, pressioni americane, trattative per liberare gli ostaggi? Intanto però questo rinvio ha messo in chiaro che qualunque iniziativa militare Israele intraprende ha senso solo se in funzione di un dopo che gli garantisca sicurezza o, quantomeno, più sicurezza. L’aggressione del 7 ottobre ha comportato per gli israeliani l’amarissima scoperta che la superiorità militare e tecnologica non la garantisce. E che senza politica si entra in un vicolo cieco: una spirale di guerra senza fine, sempre più incontrollabili, generatrice di nuovi conflitti. Ecco perché pensare al “dopo” è decisivo.
Dopo la Seconda guerra mondiale la pace è durata a lungo perché la politica – soprattutto americana – aveva cominciata a prepararla fin dall’inizio del conflitto. Oggi accade sempre di meno: ci sono sempre più guerre che non si sa come far finire. E infatti non finiscono, si continua a combattere o restano endemiche: siamo nella Terza guerra mondiale a pezzi, secondo l’espressione di papa Francesco. Si vis pacem, para pacem, si potrebbe dire correggendo un antico detto latino. Immaginare un futuro diverso – “due popoli, due Stati”? “uno Stato binazionale”? “una federazione con due Stati sotto un’unica sovranità”? – è essenziale per mettere un argine alla violenza in questa tormentata area del Medio Oriente.
Il “dopo l’aggressione di Hamas” o il “dopo l’occupazione di Gaza” va pensato anche dentro un più ampio “dopo la Terza guerra mondiale a pezzi”. L’antisemitismo appare sempre più esteso in molti Paesi arabo-islamici e in molte altre parti del mondo, confondendosi sempre di più con un odio contro l’Occidente che coagula tanta parte del Sud globale. È una battaglia che l’Occidente rischia di perdere anche in casa: non sono le manifestazioni filo-palestinesi a preoccupare, ma l’indifferenza di molti giovani americani o europei verso la ingiustificabile violenza di Hamas nei confronti di bambini, donne, uomini innocenti. Nella logica dello scontro di civiltà, l’Occidente ha risposto a questo odio cercando di imporre le sue strutture politico- istituzionali (“esportare la democrazia”).
Ma La Pira avrebbe detto che alla forza delle armi va sostituita la “capacità attrattiva” dei valori occidentali. Prima che Huntington affermasse le sue tesi sullo scontro di civiltà, il diplomatico americano Joseph Nye lanciò una proposta alternativa: puntare sul “soft power” e cioè sulla forza culturale. E se c’è un soft-power che l’Occidente possiede più di altri è un patrimonio secolare di riflessioni, esperienze, procedure su come contenere la violenza, privata e pubblica, tra gli individui e tra i popoli…