Questione non solo lessicale. Perché è giusto parlare di «libertà di maternità»
Gentile direttore, ho apprezzato molto l’intervento della ministra Mara Carfagna, “L’ora di rendere effettivo il diritto alla maternità” pubblicato mercoledì 28 aprile sul suo giornale. È da sottoscrivere in toto il suo ennesimo richiamo allo stato di disagio vissuto dalle giovani donne italiane che, specie nel Sud, si vedono negare per la mancanza di infrastrutture sociali sia le possibilità di lavoro e di carriera sia la realizzazione del desiderio di maternità. L’impegno, riaffermato dalla ministra, di utilizzare al massimo le inedite risorse offerte dal Recovery per cambiare questo stato delle cose è motivo di speranza che va alimentata e sostenuta con determinazione. E nel mio piccolo, tramite l’Associazione a cui appartengo (Se non ora quando- Libere), cerco di contribuirvi. Mi permetto però di dissentire dall’uso dell’espressione “diritto alla maternità” che compare nel testo di Carfagna.
Non si tratta di sottigliezze lessicali, ma di sostanza e che sostanza. Nell’attuale contesto culturale ciò che identifica il soggetto e lo fa esistere come tale è il possesso di un insieme di diritti e della capacità di rivendicarli. Avere dei diritti ed essere in grado di rivendicarli appare equivalente al concetto di persona e alla sua dignità di essere umano. Un linguaggio “parziale” della sfera giuridica si sta trasformando in “totale” invadendo, con la propria logica, ambiti che ne risultano profondamente alterati, come quello, appunto, della procreazione. Parlare di diritto a essere madre (o padre) sembra un’affermazione scontata ma non lo è. Se accettiamo di parlarne in questi termini abbiamo alcune conseguenze rilevanti: innanzitutto un evento eminentemente relazionale, si potrebbe dire l’archetipo della relazionalità umana, diventa appannaggio del singolo individuo, si trasforma in un diritto soggettivo che cancella in un sol colpo sia la dimensione relazionale che quella di potenzialità naturale e introduce un principio proprietario nei riguardi del bambino a venire.
Inoltre la traduzione del potere procreativo in un diritto soggettivo alla maternità ( o paternità) porta alla conseguenza che esso deve essere garantito a tutti singolarmente, donne e uomini, in quanto portatori di diritti umani individuali e ogni eventuale esclusione motivata da sesso, ceto, età, orientamento sessuale, ecc. suona come una discriminazione. In questo modo non solo si separa la procreazione dall’incontro con l’altro, ma si apre la via alla legittimazione del ricorso a tutti i mezzi che tecnica e mercato mettono e potranno mettere a disposizione dell’individuo per ottenere il rispetto del suo diritto, compreso l’utero in affitto. Quanto sarebbe più appropriato parlare di “libertà di maternità” per significare che le donne oggi vogliono scegliere in piena libertà, senza costrizioni di sorta, se essere madri oppure no e la società deve offrire loro tutti i mezzi e le occasioni perché questa libertà si realizzi.