La scelta della ministra. Perché è bene che al Dap ci sia un giudice che sa del carcere
Non molti giorni fa, su queste pagine, manifestavo il timore che gli applausi con cui il Parlamento aveva accolto il passaggio che il rieletto presidente Mattarella aveva dedicato alla questione carceraria – «Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale del detenuto. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza» – volessero soltanto coprire l’inaccettabile distanza tra doveri civili e costituzionali e cattiva coscienza politica.
Al primo atto politico che si incammina verso quella direzione, purtroppo alcuni degli applaudenti di allora già si affrettano a esprimere dissenso. La ministra Cartabia ha individuato nella persona di Carlo Renoldi il nuovo capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap). Scelta che dovrebbe essere salutata con soddisfazione. È positivo, infatti, che si sia pensato – discostandosi dalla prevalente tendenza a nominare un magistrato del pubblico ministero – a un giudice che abbia avuto, come in questo caso, una importante esperienza nella giurisdizione di sorveglianza. Il pm ha, come ruolo istituzionale, il delicato e difficile compito di dare un nome al delitto, facendo in modo che un criminale non si sottragga alla giusta pena; il magistrato di sorveglianza, il non meno delicato e difficile compito di fare in modo che quella pena possa servire a restituire alla società una persona migliore.
Appartiene di più all’esperienza e alla sensibilità del secondo capire quali condizioni si debbano realizzare affinché i condannati meritevoli possano avere effettive opportunità di graduale reinserimento sociale. Reinserimento, che rappresenta «la migliore garanzia di sicurezza», come ci ha ricordato il presidente Mattarella, poiché di regola tutti i condannati debbono fare ritorno nel libero consorzio civile e l’indice di recidiva è notevolmente più alto tra coloro che sono stati tenuti sino all’ultimo giorno a 'marcire' in galera.
Ebbene, proprio questa sensibilità per il finalismo rieducativo che la Costituzione assegna alla pena sembra essere all’origine dell’ostilità con cui la candidatura di Renoldi è stata accolta da alcuni settori politici. Per quanto possa sembrare incredibile, ciò che gli si rimprovera con insistenza è di essere un 'garantista', cioè un magistrato che si è sforzato di inverare l’intenzione riabilitativa nei confronti di tutti i condannati, con i limiti e con i criteri avallati dalla stessa Corte costituzionale.
Strana sorte questa del termine 'garantista', che un giorno si vuole bandiera per le proprie iniziative politiche; un altro, epitaffio per una nomina non gradita. Forse aveva ragione ancora una volta Sciascia quando scrisse «io non voglio, addirittura mi indigno se mi chiamano garantista, io sono per il diritto e per la giustizia, sono gli altri che devono dire che sono per la vendetta e per la repressione». Preoccupazioni sono state espresse anche da alcuni esponenti sindacali della polizia penitenziaria. Non è difficile leggervi in controluce l’idea secondo cui a un maggior riconoscimento dei diritti dei detenuti debba corrispondere una riduzione delle prerogative e dei poteri di chi con essi deve operare.
È vero il contrario, come hanno dimostrato gli Stati generali dell’esecuzione penale, il più ampio progetto culturale vòlto a valorizzare la finalità rieducativa della pena. Le linee di riforma che ne uscivano tratteggiate implicavano un’altissima considerazione delle funzioni della Polizia penitenziaria, pur all’ombra di fatiscenti strutture e mai rischiarata dai riflettori e dalle gratificazioni dei media. Le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria devono – non meno degli appartenenti alle altre forze di sicurezza – saper fronteggiare pericoli, spesso persino più insidiosi; devono affrontare sacrifici quotidiani resi più gravosi dal contesto doloroso e mortificante; devono essere garanti della sicurezza degli operatori e dei detenuti, usando nei confronti di questi metodi rispettosi, ma non imbelli; devono – primi osservatori di prossimità – saper capire le personalità e le potenzialità dei soggetti a loro affidati; devono saper collaborare con gli operatori del trattamento per cercare di riconsegnarli migliori alla società; devono saper essere, insomma, agenti di custodia e di recupero.
Non a caso si era allora molto insistito sulla necessità di una qualificata formazione multidisciplinare per assolvere una così delicata e insostituibile funzione. È semmai una idea ciecamente repressiva della sanzione penale, quindi, che la Polizia penitenziaria avrebbe interesse ad avversare. Se l’esecuzione della pena detentiva, infatti, si riduce a mera segregazione del condannato il ruolo degli appartenenti alla polizia penitenziaria scade irrimediabilmente a quello di 'secondini' e di 'girachiavi'. Più in generale, è l’intero Paese, con il sovraffollamento carcerario e con una pena detentiva che non sappia promuovere il reinserimento sociale del condannato, a perdere in dignità. E in sicurezza.