Politica. Per una democrazia funzionante sono più adatte le forbici dell'ascia
Martino Liva
Non è la prima volta che un Governo si appresta a insediarsi annunciando di voler avviare una stagione di riforme istituzionali. Ci si può domandare se, tra guerra, inflazione e crisi energetica, sia la priorità. Certo, nulla vieta di farlo, soprattutto alla luce delle difficoltà, innegabili, delle nostre istituzioni e della politica in generale. Al riguardo esiste un primo bivio che chi si confronta con la riforma della Costituzione deve fronteggiare. Usare le forbici, emendando puntualmente ciò che la storia politico-istituzionale ci dice non funzionare (lo suggerì Meuccio Ruini, in chiusura dei lavori della Costituente), o imbracciare la scure, cambiando il nostro sistema parlamentare in un (ancora) imprecisato presidenzialismo? Per scegliere, gioverebbe osservare la storia recente. Quando si è ceduto al mito della maxi-riforma (Riforma Berlusconi-Calderoli del 2006 e Riforma Renzi-Boschi del 2016), gli sforzi - positivi o meno che fossero - si sono poi infranti davanti a sonore bocciature referendarie.
La maxi-riforma “a pacchetto”, soprattutto se spinta dal Governo di turno, è sempre un rischio. Carica di significato politico ciò che invece dovrebbe viaggiare su un piano diverso (da qui le variegate, talvolta fantasiose, idee su nuove Assemblee costituenti o Commissioni bicamerali ad hoc). Se a quel bivio, invece, si scegliesse la strada meno tracciata, si potrebbero ottenere risultati concreti e più condivisi, come la materia richiederebbe. In altre parole, forse non serve abbattere il nostro parlamentarismo, ma modificarlo chirurgicamente per dotarlo di un surplus di efficienza e governabilità, che da più parti si invoca. Alcuni esempi? Modificare l’articolo 92 Cost. con attribuzione al Presidente del Consiglio del potere, quanto meno, di revocare i ministri.
Oppure, immaginare un unico voto di fiducia al Governo in seduta congiunta delle Camere, stante la diminuzione del numero dei Parlamentari. Ancora, riproporre l’idea del disegno di legge rafforzato (presente nella Riforma Renzi-Boschi), che consente al Governo di avere tempi certi nell’approvazione o meno di una legge giudicata essenziale per attuare il programma, con conseguente possibile riduzione dell’abuso dei decreti legge, già sanzionato dalla Corte costituzionale sin dalla “famosa” sentenza 360/1996. Studiando, al contempo, l’introduzione di piccole regole di virtuosa governance istituzionale, quale il divieto costituzionale di cambiare la legge elettorale nell’ultimo anno di legislatura, quando la tentazione è quella di redigerla guardando ai sondaggi, più che agli elettori. Senza dimenticare che una “maxi- riforma” che non richiede modifiche della Carta (ma solo dei regolamenti parlamentari) consisterebbe nel prevedere come ordinario l’iter legislativo che si svolge esclusivamente nelle Commissioni parlamentari competenti (la cosiddetta Commissione in sede deliberante).
Lasciando la discussione in aula obbligatoria solo per le materie più delicate, o su richiesta di un certo numero di parlamentari, come peraltro già suggerisce la Costituzione. Probabilmente non andrebbe in prima pagina, ma sarebbe carburante per migliorare la fluidità legislativa e, forse, aumentarne la qualità. Insomma, il lavoro di forbici e pennello per completare, correggere e adattare, siamo certi sia meno vincente, in termini di risultato finale, dell’opera muscolare con ascia e cazzuola, da sottoporre poi all’ennesima ordalia referendaria? L’ascia, semmai, teniamola in serbo per applicarla fino a infondo, la Costituzione, combattendo le diseguaglianze, promuovendo la solidarietà sociale, l’iniziativa privata e, in definitiva, rimuovendo gli ostacoli alla fruizione dei diritti davvero fondamentali.