Per terreno aspro e felice. Noi adulti, Flavio, Gianluca e tutti gli altri
Flavio e Gianluca, i due ragazzi ternani di sedici e quindici anni morti nel sonno dopo aver assunto metadone credendo fosse codeina, non corrispondevano all’immagine stereotipata del tossicodipendente proveniente da famiglie disagiate. Al contrario: erano cresciuti in ambienti ordinari con esperienze simili a quelle di ogni loro coetaneo. Frequentavano la scuola, amavano lo sport, giocavano e scherzavano e non avevano particolari grilli per la testa. È vero: pare non fosse la prima volta che acquistavano una dose da quindici euro nel parco cittadino da quell’uomo già conosciuto.
Tuttavia si tratta di giovani come tanti: ciò dovrebbe spostare la nostra riflessione dal piano meramente sociologico a quello spirituale. Perché sentivano l’esigenza di provare a oltrepassare i confini del lecito? Cosa li spingeva a cercare emozioni speciali? Sapevano di poter rischiare la vita affidandola a un pusher? Fino a che punto erano consapevoli del pericolo che stavano correndo?
A queste domande sarebbe semplice rispondere richiamando lo statuto universale dell’adolescenza: l’età dell’estremo, il momento anagrafico in cui, carichi di energia propulsiva, cerchiamo di capire chi siamo e chi potremo diventare, come se per conquistare l’auspicata sicurezza di se stessi dovessimo davvero gettare uno sguardo oltre l’abisso. Ma ogni epoca presenta una forma caratteristica affinché la costruzione della personalità trovi una propria rappresentazione plastica. Il mondo nel quale viviamo esalta e lusinga il desiderio, di qualsiasi tipo, arrivando a nasconderne la mancata realizzazione, quasi fosse vergognoso non risultare all’altezza rispetto a ciò che ci siamo proposti.
In tale prospettiva l’antica distinzione fra vecchi e giovani viene a cadere. La dura esperienza della realtà è infatti oggi continuamente differita. Abbiamo l’illusione di vivere nel Paese dei Balocchi: un posto dove se tocchi il fuoco non ti bruci, basta un clic per credere di poter acquisire la conoscenza, se hai un qualsiasi problema lo risolvi. La recente pandemia, che in teoria avrebbe potuto e dovuto metterci giudizio, ha accresciuto la nostra insoddisfazione, e adesso troppi sono pronti a ricominciare come se niente fosse accaduto.
Molti giovani percepiscono tale inquietudine e la smascherano facendo il loro mestiere di spericolati esploratori sul crinale dei limiti. Quando arrivano a cercare una sostanza stupefacente, i ponti sono già crollati, lo scenario educativo è distrutto: vuol dire che nessuno ha fatto il 'nemico', come avrebbe dovuto, ponendosi di fronte a loro quale argine necessario.
Incarnare il precetto che chiediamo ai giovani di rispettare, non semplicemente intimando di osservarlo: lo sappiamo, questo è difficile, implica fatica, coerenza, costanza, quotidiano discernimento, ma soprattutto l’indicazione di una strada felice, non triste, come purtroppo appaiono molte delle nostre esistenze, nonostante tutte le stelline di cartapesta di cui ci circondiamo. Ci sono tante maniere di lasciare un quindicenne da solo, smarrito nel vuoto della libertà: uno dei più tragici è lasciargli fare ciò che vuole, sottraendogli le sagome formative della dialettica.
Avremmo bisogno di nuove esperienze vitali da offrire ai nostri figli: non magnifici campi fioriti, in cui le possibilità di affermazione personale si moltiplicano come cellule destinate a non fargli vedere più niente di autentico, bensì terreni aspri di confronto critico nei quali siano contemplate anche la sconfitta, il fallimento, la caduta rovinosa. Soltanto così potranno uscire dall’incantamento artificiale superando gli ostacoli con forze proprie, senza strumentazioni esterne. Per farlo servono adulti equilibrati, non intimamente insoddisfatti e insofferenti ma impegnati nell’esecuzione creativa della vita, capaci di mostrare ai ragazzi il valore della scelta, intesa quale rinuncia anche dolorosa a qualcosa che avremmo potuto fare e abbiamo deciso di sacrificare in nome di qualcos’altro a cui tenevamo di più.