Accuse a Salvini e doveri pubblici. Per puro senso della civiltà
Erano bloccati in mare perché ostaggi della politica, sequestrati dalla propaganda. Erano bloccati in mare perché il segretario della Lega Matteo Salvini, al tempo ministro dell’Interno, in quell’infuocatissimo agosto 2019 agitava in diretta Facebook dei fantasmi con la pelle nera: scenografia del suo monologo contro i migranti e contro l’Europa, leva per la scalata elettorale verso il sogno del 40% e dei «pieni poteri», sogno che di lì a poco sarebbe svanito in Parlamento. Non erano, insomma, bloccati in mare per tutelare un “interesse pubblico”. Erano in 124, d’altra parte: poche decine di essere umani alle porte della ricca Europa. A un passo dall’Italia, Paese del G7 e Stato fondatore della Ue, solida Repubblica democratica fondata su una Carta costituzionale che fa perno sul primato e la dignità della persona. Nessun pericolo per nessuno, a meno di non volerlo creare appositamente per via mediatica. Nessun fatto che non si potesse gestire con umanità e buona organizzazione. Nessun risultato politico che non potesse essere perseguito in altri modi. Di lì a qualche settimana, il “frutto” di quelle (presunte) azioni di forza, la solidarietà europea, sarebbe stato raccolto da un altro ministro dell’Interno con metodi del tutto diversi: dialogo e negoziazione con le istituzioni comunitarie e con i Paesi membri dell’Unione, a partire dalle “nemiche” – nella retorica papeetiana di quei giorni – Germania e Francia.
È questo, in fondo, ciò che ha detto il Senato ieri. Si può discutere per ore sulla “genuinità politica” di questa decisione o sul cambio di posizione di M5s rispetto al caso–Diciotti. Sull’esiguità dei numeri (appena 8 senatori) che dividono i favorevoli dai contrari al processo, a dimostrazione dei confini molto labili tra le forze politiche quando si maneggia lo scottante dossier migrazioni. Si può discutere per giorni e giorni sulla “correità” o meno, istituzionale e politica, del premier di allora e di oggi Giuseppe Conte, dell’ex vicepremier e ora ministro degli Esteri Luigi Di Maio, dei ministri del governo giallo–verde a partire dall’ex responsabile dei Trasporti e di ciò che accade nei mari italiani, Danilo Toninelli. Ma il senso del voto di ieri non cambia: il primo limite al potere di un uomo pubblico che occupa un cruciale ruolo istituzionale è il senso di civiltà. Civiltà delle parole, civiltà delle azioni, proporzionalità e razionalità delle decisioni, chiara distinzione tra funzione istituzionale e propaganda politica, ancoraggio costituzionale, rispetto indefettibile del diritto internazionale a tutela della reputazione del proprio Paese. Da qui derivano le leggi, le ipotesi di reato, i processi, le (eventuali) sentenze. Ognuna di queste cose nasce dal senso di civiltà che regola, orienta e, soprattutto, limita il potere. Salvini doveva ricordare, in quei giorni e oggi, che il limite della civiltà non può essere travalicato nemmeno quando porta tanti (evanescenti) voti.
Certo, il prosieguo della vicenda giudiziaria – che non ha esiti scontati e che, ricordiamolo, non ha nulla a che fare con la decisione del Senato di ieri – dirà molte cose anche sulla natura ambigua dell’ex governo gialloverde. La chiamata in correità del premier Conte, già minacciata da Salvini, evidenzierà probabilmente la funzione anomala che il presidente del Consiglio svolse durante le varie emergenze umanitarie in mare: un ruolo, così appare dalle carte, più sostanziale che istituzionale, finalizzato ad ammorbidire con silenzi pubblici e negoziati sotto traccia gli esiti dei bracci di ferro ingaggiati dall’allora ministro dell’Interno con i disperati in mare e i loro salvatori. Un ruolo svolto con la sponda indispensabile del Colle ed efficace, va ricordato, soprattutto grazie all’operosa e ingegnosa generosità della Chiesa cattolica italiana e di altre Chiese cristiane presenti nel Paese.
Allo stesso tempo non si può non evidenziare, sotto il profilo politico, che la capacità di Conte di “opporsi” alla linea–Salvini crebbe d’intensità via via che si avvicinava il redde rationem tra Lega ed M5s e che si affacciava la possibilità di un Conte–bis retto da pentastellati e Pd. Le valutazioni su questi punti politici possono essere varie e sfumate, e molte, pur diverse, sono legittime: di certo va conservata una differenza tra chi ha mosso un dito solo per mandare la disperazione in diretta Facebook e chi ha mosso un dito per accogliere comunque nella stagione sovran-populista.
C’è un messaggio, però, che ieri il Senato non è riuscito o non ha voluto mandare. E che pure serve come il pane. Un messaggio insieme di umanità e razionalità rispetto a quanto sta accadendo in questi giorni sulle coste italiane, a quanto accadrà nel mondo, in termini di migrazioni, alla luce dell’epocale dramma sociale causato da Covid–19. Se si sono trovati i numeri per non sottrarre Salvini al processo, non si trovano ancora i numeri per cambiare i decreti che portano il nome dell’ex ministro dell’Interno, approvare lo ius culturae e ritrovare, soprattutto, una via autenticamente italiana – non scimmiottata da qualche leader estero – all’accoglienza e alla sicurezza. Se la paura di Salvini ha “creato” una nuova maggioranza, questa nuova maggioranza non ha ancora esorcizzato – né in se stessa né presso l’opinione pubblica – l’assurda paura dell’immigrato. Colui che noi stessi siamo stati e ancora siamo.