La doppia presidenza di Giorgio Napolitano (2006-2015) ha coinciso con un periodo delicato e complesso della storia italiana, nella quale il Presidente della Repubblica ha svolto un ruolo di protagonista, forse più di ogni altro dei suoi dieci predecessori alla prima magistratura repubblicana. Tentare un bilancio del decennio presidenziale significa guardare al percorso di uno statista, alla storia del Paese e al ruolo della Presidenza della Repubblica nel sistema di governo italiano. E qualsiasi bilancio della presidenza Napolitano deve muovere dal riconoscimento della grande statura del Presidente, del suo eccezionale itinerario politico, che ne ha fatto quasi un gigante in un’era dominata da nani politici. Il suo senso dello Stato e delle istituzioni repubblicane ricorda tempi lontani e migliori, così come il suo linguaggio
politico. E forse proprio l’idea di 'istituzione' può essere eretta a concetto chiave di questa Presidenza: in un tempo nel quale prevale l’idea del politicovicino nel senso che dice quello che tutti (o i più) pensano, Napolitano ha sottolineato la dimensione istituzionale della politica.
I
n un tempo di particolarismi, ha proposto un’idea di interesse generale, che le istituzioni sono chiamate a servire. Anche in quelle che a nostro avviso sono le due principali 'macchie' della sua presidenza – la mancata emanazione del decretolegge sul caso Englaro e l’intervento decisivo nella decisione di rimandare in India i due marò – non si può non vedere questa convinzione: che l’interesse generale debba prevalere sui particolarismi. Una visione che ha le sue radici in una concezione della politica propria della migliore classe dirigente del Partito comunista italiano (un partito che da rivoluzionario si era fatto istituzionale) e, in fondo, della stessa 'Prima Repubblica' nell’insieme dei suoi
grandi protagonisti.
I
n nome dell’istituzione e dell’interesse generale, Napolitano ha interpretato la presidenza in due modi diversi: negli anni dal 2006 al 2010 e di nuovo dopo l’inizio del 2014, a fronte di maggioranze parlamentari chiare, ha lasciato ai governi (Prodi II, Berlusconi IV e Renzi) e alle loro maggioranze la conduzione della politica nazionale, come la Costituzione prescrive. Nel convulso periodo apertosi nella seconda metà del 2010 – con la frammentazione della maggioranza di centrodestra – e proseguito attraverso le crisi di governo del 2011 e
del 2013 ed i governi Monti e Letta, ha invece assunto un ruolo di primo piano, promuovendo i governi e le coalizioni, con una leadership politica che lo ha avvicinato quasi ai presidenti della Quinta Repubblica francese.
L
e funzioni presidenziali sono state ampliate in entrambi questi periodi: in particolare, il Capo dello Stato è intervenuto su tutte le grandi questioni della politica nazionale, e in particolare nel procedimento di formazione della legge (sollecitando più volte questo o quel provvedimento, magari con lettere ai presidenti di Commissione) e a tratti ha svolto anche un ruolo di garante verso l’Europa (in particolare durante la crisi dell’euro) e verso gli alleati internazionali dell’Italia (si pensi alla crisi libica o alle posizioni assunte sull’acquisto degli F35). E non ha esitato neppure a sfidare l’altro potere esuberante dell’attuale stagione istituzionale: nel conflitto costituzionale con i magistrati di Palermo ha affrontato con stile e determinazione e ridotto alla ragione le punte più discutibili dell’attivismo
giudiziale
italian style.
V
erosimilmente, nella percezione del Presidente, tutte queste scelte sono state imposte dall’interesse generale e dalla
salus rei publicae,
e probabilmente ciò è esatto. Ma alla conclusione del suo mandato si impone una riflessione sull’impatto di queste scelte sulla presidenza come organo costituzionale. Al riguardo non si può non muovere dalla constatazione che la presidenza italiana è oggi un centro di potere di assoluto rilievo, molto più incisivo di tutti i capi di Stato nei regimi parlamentari contemporanei, sia di quelli monarchici che di quelli repubblicani. Addirittura il presidente italiano conta di più di molti presidenti eletti a suffragio universale (da quello portoghese a quello polacco, da quello finlandese a quello irlandese). E non si tratta solo di un 'motore di riserva', che si attiva quando il motore principale – l’asse governo-maggioranza parlamentare – si rivela disfunzionale: tutta la presidenza Napolitano evidenzia un ruolo strategico del Presidente ben oltre i momenti di crisi. La vera questione è, dunque, se l’attivismo presidenziale – delineatosi dalla presidenza Pertini in poi – sia ormai ad un punto di non ritorno, nel quale il regime parlamentare italiano ha assunto tratti 'dualisti', e i governi devono convivere con un indirizzo politico determinato – oltre che dal corpo elettorale e dal Parlamento da questo eletto – anche dal Presidente della Repubblica.
Solo il futuro ci dirà quanto l’enlargement
of functions
della Presidenza italiana sia congiunturale o strutturale. E su ciò avranno conseguenze non marginali anche le prossime elezioni presidenziali. Ma se l’attivismo presidenziale dovesse consolidarsi come un dato ordinario del funzionamento delle nostre istituzioni, esso dovrà misurarsi con due deficit: quello di legittimazione (un Presidente che svolge un ruolo così incisivo dovrebbe, forse, essere eletto a suffragio universale, non con un 'conclave repubblicano' come quello cui stiamo per assistere) e quello di responsabilità.
Secondo l’attuale Costituzione il Presidente non è responsabile per gli atti posti in essere nell’esercizio delle sue funzioni: e ciò in quanto a rispondere dei suoi atti è il Governo, che ne è in molti casi l’autore.
Ma se il Presidente diventa ordinariamente un potere attivo – e non solo moderatore o di controllo – l’assenza di responsabilità politica appare difficilmente compatibile con i principi di una democrazia rappresentativa, che richiedono la corrispondenza fra consenso, potere e responsabilità.