Trent’anni fa gli italiani arrivarono fino nelle acque della Malesia per soccorrere i profughi vietnamiti. La situazione politica del loro Paese li spingeva a fuggire in mare. Fu mobilitazione generale. È stata ricordata ieri a Jesolo, alla presenza dell’indimenticato Giuseppe Zamberletti, fondatore e primo capo della protezione civile. Alcuni esponenti della comunità vietnamita hanno voluto così ringraziare l’Italia per l’accoglienza di allora. In prima fila, in quella mobilitazione mondiale, furono i cattolici assieme ai fedeli di tante altre religioni. Un reale movimento di popolo che, tra le titubanze di ordine politico e diplomatico, spinse a interessarsi di quei poveracci in balia delle onde. Delle onde lontane. Come oggi spinge a interessarci di quelli in balia delle onde vicine. Mai in nome della politica, ma in nome dell’uomo e della sua dignità che si fonda sull’esser creatura voluta da Dio, a sua immagine e somiglianza. Molti sono gli attentati nella nostra epoca a tale dignità. Vengono da sottili ma decisive mutazioni in campo biogenetico, e dalle ipocrisie di una ricerca scientifica interessata più a vendere che alla vita. E vengono da corpose e altrettanto decisive mutazioni nei flussi migratori, e dalle ipocrisie di una politica che usa gli odierni boat people per battaglie di basso profilo. Ma ancora una volta i cattolici, assieme agli uomini e alle donne di buona volontà, non stanno zitti. E chiedono a tutti – in Italia, a Malta e nel resto d’Europa – di non far finta di niente. Per amore concretissimo all’uomo, non a una parte politica. Trent’anni fa, noi italiani andammo a soccorrere i boat people remoti dalle nostre coste. Oggi i boat people sono nelle nostre acque. Ci sono molte differenze. Ma tutte le differenze non valgono a oscurare la ben più importante somiglianza: è gente che rischia la deriva, che va soccorsa. Poi si deciderà dove staranno, se e come rimarranno e tutto il resto. I profughi vietnamiti di allora in Italia si integrarono bene: fanno parte di questo Paese e, in questa rovente estate del 2009, ringraziano noi che navigammo per mezzo mondo decisi a soccorrere altri esseri umani in difficoltà. Ne fummo fieri. Fu giusto. Fu, per così dire, normale per la nostra sensibilità e per la nostra cultura. E siamo sicuri che la cultura e la sensibilità di una larga, larghissima, maggioranza della nostra gente si nutre della stessa convinzione: soccorrere chi ha bisogno. Quando è lontano, e quando è vicino. Siamo un popolo educato all’apertura verso le persone. E i disperati del mare sono persone. Si tende a etichettarli come emergenza sociale da trattare 'politicamente', ma sono di carne e ossa, di fiato e anima, di speranza e fatica, di anima e sguardo. Uomini, donne, ragazzi. La fermezza nel far rispettare gli accordi internazionali, l’oculatezza nel gestire un fenomeno dai molti risvolti, l’ansia di segnare un punto nella polemica pubblica, il bisogno di dimostrarsi 'migliori' dell’avversario politico non possono mai spingerci a ridurre queste persone – vulnerabili e sofferenti – a strumenti e alibi. Si tratta, in fondo, di imparare da noi stessi. Di non negare noi stessi. I noi stessi di trent’anni fa e, se ci scrutiamo davvero dentro, i noi stessi di oggi. Vedere e saper soccorrere l’uomo in difficoltà in mezzo al mare significa vedere e sapere, ancora e sempre, chi siamo. Significa evitare che i terribili naufragi di speranza al largo delle nostre coste siano il nostro naufragio.