Un popolo da fare. Il grande salto nel futuro degli europei
Per una svolta comunitaria, scrivevamo su queste colonne l’11 marzo scorso in pieno choc pandemico, l’Europa sia capace di tre mosse: sospendere il Patto di stabilità, approvare in tempi rapidi il Bilancio pluriennale e sperimentare una qualche forma di condivisone del debito. Sembravano auspici azzardati, formulati allora tutti insieme, quasi da cuore gettato oltre l’ostacolo. Proprio per questo è davvero «impressionante» – l’aggettivo è di Christine Lagarde, presidente della Bce – constatare come in un solo quadrimestre la vecchia, acciaccata e per alcuni sovranisti spacciata Unione Europea sia riuscita ad accelerare il suo processo di crescita politica e progettualità istituzionale. Tanto da gettare le fondamenta, visto che si sperimenterà con il Recovery Fund una capacità impositiva della Commissione, di una possibile, futura Unione fiscale. La sola in grado di completare – dopo aver unito il mercato, la moneta in 19 Paesi e le banche – l’edificio politico e non più solo intergovernativo della Ue partendo da una bozza di bilancio federale. Epperò (quasi) fatta l’Europa, bisogna fare gli europei.
La strada, certo, è molto lunga, ma in tanti avrebbero già oggi tutte le intenzioni di percorrerla. Gli europei-italiani, ad esempio, sono consapevoli che non si dovranno sprecare le risorse in arrivo dall’Europa in trasferimenti di reddito, leggi spesa corrente, ma nelle necessarie riforme per generare reddito, leggi crescita. Ogni italiano riceverà netti 500 euro a fondo perduto e li riceverà dagli europei del Nord, visto che gli olandesi ne verseranno, sempre netti, oltre 900 a testa e i tedeschi 840. Gli europei-italiani che da contributori netti dell’Unione, l’anno venturo, diventeranno per la prima volta beneficiari netti, hanno ben presente che non è stato certo l’euro e tanto meno il Covid-19 a impedire al Paese di crescere come gli altri, di avere una produttività stagnante da vent’anni, un basso tasso di laureati e diplomati, poche donne al lavoro, una burocrazia asfissiante, un Codice civile che nell’era del communitary capitalism e della finanza a impatto considera quale unica finalità di un’impresa societaria, all’articolo 2.247, quella di generare profitti – i nostri giuristi sono troppo conservatori, sostiene da tempo Stefano Zamagni. Sono altresì consapevoli, gli europei-italiani, del deficit di credibilità da colmare con i nostri partner per l’enorme debito pubblico, altri 175 miliardi nell’ultimo anno, e l’insopportabile evasione fiscale che risultano essere, per di più, i primi responsabili della mancata capacità di creare ricchezza materiale e sociale nel Paese.
E per questo guardano con un po’ di invidia alla definizione di 'frugal', intesa come capacità del governo di mantenere un equilibrio di bilancio che consenta di spendere bene per investimenti, assistenza e welfare, oltre che per la previdenza, attenuando al contempo l’impatto fiscale. Gli europei-italiani sanno infine che il nome del Recovery Fund è 'Next Generation Ue' e che pertanto se nell’Italia di 30 anni fa l’incidenza della povertà era massima nelle classi anziane e minima nelle classi giovani mentre oggi è il contrario, qualche forma di riequilibrio della crescente disuguaglianza generazionale andrà pur perseguito anche a costo di misure elettoralmente impopolari. Non è un dogma, per altro, che i governi in grado di attuare una 'frugalità' – leggi pure austerità espansiva e non austerità stupida – siano sempre bocciati nelle urne: è successo il contrario in molti casi, come sottolineano studi vecchi e nuovi. D’altro canto, è molto probabile che gli europei-olandesi siano perfettamente consapevoli che inizieranno a condividere risorse comuni con i Paesi in passato meno frugali.
Conoscono la qualità del loro diritto societario, delle reti fisiche e digitali. Vantano un sistema di regole e un terziario d’eccellenza che vale la metà del Prodotto interno lordo e che persuadono tante multinazionali a trasferire la sede legale nel loro Paese. Ne vanno certo fieri, perché tutto ciò aumenta la loro ricchezza e porta il Pil procapite al 130% della media europea. Sanno però gli europei-olandesi come il dumping fiscale – possibile proprio per l’equilibrio del loro bilancio – realizzato attraverso i 'Tax ruling', in pratica sconti spropositati per chi sposta la sede fiscale in Olanda, provochino una distorsione nella destinazione degli investimenti. E soprattutto un danno agli altri partner europei, per l’Italia quantificabile in almeno 5 miliardi. Se l’Europa finirà per adottare davvero imposte comunitarie, questi 'paradisi' sono destinati a traslocare fuori dall’Unione, con buona pace degli europei-olandesi. I quali sono anche riusciti, ed è un gran merito, a rendere la filiera agroalimentare efficientissima grazie alla meccanizzazione, tanto da realizzare un surplus nella bilancia commerciale. Ma sanno pure che molte di quelle merci finiscono nel mercato comune, anche ai Paesi 'non frugali' che le importano.
Hanno bisogno pertanto che quei Paesi siano in salute e possano comprare ortaggi e fiori olandesi per continuare a crescere, una situazione che ricorda tanto la miopia della Lega allorché voleva staccarsi da quel Sud Italia che consumava i prodotti delle imprese settentrionali. Capiscono invece gli europei-e-basta, gli europei che tutti noi siamo, che nell’attuale scenario geo-politico e in un mercato globalizzato, qualsiasi Paese, per quanto in salute e parsimonioso, da solo e senza Europa finirebbe schiacciato tra Stati Uniti e Cina. E tanto meno potrebbe vincere all’insegna della sostenibilità le grandi partite del Ventunesimo secolo: da quella digitale alla transizione energetica, dai progetti di ricerca biotecnologica alla mobilità elettrica e all’idrogeno, da un rinnovato sistema di welfare alla costruzione di relazioni eque e solidali con il resto del mondo. Gli europei-europei sanno dunque che in questa fine di luglio 2020 la Ue ha compiuto un balzo evolutivo al quale Governi e Parlamenti d’Italia, Olanda e degli altri 25 Stati dell’Unione devono tener dietro.