Opinioni

Economia narrativa/11. Libertà e uguaglianza? È la fraternità che genera il legame

Luigino Bruni domenica 22 dicembre 2024

Nell’esilio di Monterana, quelle quattro case sperdute in mezzo alla montagna, don Camillo precipitò in una profonda tristezza e una grande malinconia: “Tristi, i giorni dell’esilio nel paesuccio in cima al monte... . Gesù – diceva don Camillo al Cristo dell’altare maggiore – è una malinconia da impazzire: quassù non succede niente!”. Anche questa volta è il dialogo con Gesù che lo salva: “Non capisco – rispondeva sorridendo il Cristo crocifisso – ogni mattina il sole nasce e ogni sera tramonta, vedi miliardi di stelle ruotare sul tuo capo ogni notte, l’erba spunta nei prati, il tempo continua il suo giro. Dio è presente e si manifesta ad ogni istante e in ogni dove. Mi pare che succedano molte cose, don Camillo. Mi pare che succedano le cose più importanti” (Giovannino Guareschi, Mondo piccolo. Don Camillo e il suo gregge, p. 249). Un dialogo bellissimo, che contiene, ancora una volta, una stupenda lezione di teologia popolare. Quando negli esili la vita diventa difficile, quando la malinconia ci vorrebbe fare ‘impazzire’, bisogna soltanto seguire il consiglio del Gesù di don Camillo. Il Cristo non gli rivolge parole religiose, non lo invita a pregare di più e meglio, né ad impegnarsi con l’ascetica, o a diventare più buono. No: gli parla di vita, di sole, di stelle, di erba, del tempo. Lo invita a ritrovare la gioia di vivere guardando il mondo – la vita era lì, dentro le cose piccole e terrestri. Se la vita perde senso e interesse, non ritorna cercandola sul piano religioso: occorre riattivare la gioia di vivere. Ma questo è possibile se ad un certo punto si comprende qualcosa di tanto elementare quanto raro: che le ‘cose più importanti’ nella vita spirituale (e della vita-e-basta) non sono quelle ‘sopra’ il cielo ma quelle ‘sotto’. Troppe persone non escono da profonde crisi spirituali perché ricercano la fede smarrita nelle cose religiose ‘di lassù', e quindi non la trovano nell’unico luogo dove si trova: quaggiù; guardando in alto si perdono il mistero spiritualissimo del fiore, del fiume, della sottile voce del silenzio, che si trova esattamente allo stesso livello del nostro sguardo. Quando il senso di Dio e della vita scompare dall’orizzonte lo possiamo ricercare imparando ad abbassare lo sguardo verso la terra – alla fede adulta non si sale: si scende.

Un giorno, l’esilio di don Camillo finalmente terminò; perché gli esili finiscono, e un giorno preciso arriva un ambasciatore, esterno o del cuore, a portarci l’annuncio, e dall’angoscia fiorisce la certezza infallibile che un mondo è finito e ne è iniziato un altro. È sempre un annuncio meraviglioso, che ci sorprende come una resurrezione mentre siamo ancora inchiodati nel legno. Con l’esilio di don Camillo termina anche l’esilio del suo Crocifisso. Don Camillo, il lettore lo ricorderà, lo aveva voluto con sé a Monterana: era sceso di notte a prenderselo, e dopo una lunga via crucis lo aveva collocato nella nuova chiesetta. Ma ora è un tempo nuovo: “Quando don Camillo uscì dalla chiesuola aveva il grande crocifisso sulle spalle. La croce, stavolta, era leggera come una piuma” (p. 265). I pesi delle croci cambiano quando cambiano i pesi nel cuore.

Ad attenderlo nel paese c’è una sorpresa, grande e paurosa. Iniziò a piovere, senza sosta, e il Po si ingrossava ora dopo ora. Tutti guardavano con terrore alla Pioppaccia, che era la parte più fragile dell’argine: “Alle undici l'acqua era ancora cresciuta improvvisamente, e alla paura seguì il terrore. – Non si fa più a tempo a salvare niente – disse qualcuno. L’argine della Pioppaccia si spaccherà e tutto sarà perduto”. Arriva don Camillo, e grida alla gente: “Resisterà, e ne sono tanto sicuro che io, adesso, mi vado a piantare sull'argine alla Pioppaccia, e non mi muovo. Se sbaglio pago”. Don Camillo si siede sull’argine, e aspetta. Ma arriva subito un altro colpo di scena: “Vengo a farvi compagnia, reverendo! – L'argine resisterà, non c'è nessun pericolo, – gridò Peppone... Quando li vide tutti e due, prete e sindaco, sull'argine, all'altezza della Pioppaccia, la gente fu presa dalla frenesia e tutti corsero alle loro case e incominciarono a tirar fuori le bestie dalle stalle e a caricare i carri. Lo sgombero iniziò” (p. 268-9).

Peppone e don Camillo se ne stavano seduti su “due grossi sassi”, sotto l’ombrello: “Verso sera l'acqua incominciò a calare e don Camillo e Peppone lasciarono l'argine e tornarono nel paese” (pp. 269-70). La storia e la letteratura ci hanno donato molte immagini della fraternità civile; questa di Peppone e don Camillo seduti sull’argine sotto lo stesso ombrello, è certamente per noi una delle più belle e forti. La libertà e l’uguaglianza non bastano, né da sole né insieme, per generare una buona e giusta vita in comune. Non bastano perché manca il legame, la fraternità, che è la corda (fides) che li tiene assieme – nel Novecento una parte di mondo ha preso la libertà, scartando l’uguaglianza, e l’altra ha preso l’uguaglianza, negando la libertà. La fraternità, essendo un rapporto, è fragile e vulnerabile; non la controlliamo pienamente, dipende da noi e soprattutto dagli altri che possono tagliare la corda, recidere il filo, spezzare il patto, e noi precipitiamo nel vuoto con in mano il nostro capo della fune. Per questo nulla ci attrae più della fraternità, e nulla ci fa più paura. Così continuiamo a dimenticarla nella sfera pubblica, mentre vediamo sempre meglio che libertà e uguaglianza senza fraternità si snaturano e smarriscono: la libertà diventa una corsa solitaria senza meta, e l’uguaglianza si trasforma in qualcosa di algido, perde calore e gioia.

Ma la pioggia continuava, e l’acqua del Po “si scavò un passaggio sotto l’argine e, ad un tratto, sbucò sulla terra” (p. 270). Il paese iniziava ad essere tutto allagato. Quelli che erano tornati lasciarono il paese con birocci, moto, biciclette e camion, e da lontano guardavano il paese affondare: “Nessuno parlava: le vecchie piangevano senza strepito. Stavano lì a veder morire il loro paese, e lo vedevano già morto. – Non c’è un Dio – disse con voce cupa un vecchio” (p. 271). Le grandi tragedie fanno perdere la fede ad alcuni, e la fanno ritrovare ad altri.

Anche la chiesa del paese iniziò ad allagarsi: “L’acqua aveva già coperto due dei gradini del portale” (p. 272). Era domenica, e “don Camillo incominciò, ancora da solo, la messa. E quando venne il momento di parlare ai fedeli, a don Camillo non interessò il fatto che la chiesa fosse deserta: egli parlava per quelli là sull’argine... . La porta era spalancata e si vedeva la piazza con le case annegate”. Don Camillo fece la sua predica nella chiesa vuota e ormai con tutto il pavimento allagato, “e intanto la gente, immobile sull’argine, guardava il campanile. E continuò a guardarlo e, quando dal campanile vennero i rintocchi dell’Elevazione, le donne si inginocchiarono sulla terra bagnata e gli uomini abbassarono il capo” (pp. 272-3). Una scena stupenda, che ci ricorda che ogni giorno migliaia di ‘don Camillo’ celebrano messe in chiese sempre più deserte ma con la porta spalancata sulle piazze e sulle città allagate. E poi ci dice anche che per evitare lo spaesamento non basta vedere il campanile: c’è bisogno di un campanile abitato da qualcuno che suona le campane e magari dice messa, anche da solo; i campanili disabitati, abbandonati o trasformati in museo, spaesano più dell’assenza dei campanili, perché il ricordo del passato diventa solo dolore.

Don Camillo con una barchetta riesce poi a raggiungere il primo piano della sua canonica: “Verso le tre del pomeriggio sentì bussare alla porta: – Avanti – disse don Camillo. Comparve la faccia di Peppone. – Se vi interessa – borbottò Peppone – la barca è lì giù che vi aspetta. – Non mi interessa – rispose don Camillo. – La guardia muore ma non si arrende –” (p. 274).

Don Camillo si sente la ‘guardia’ del suo villaggio, una sentinella che resta fedele nel suo posto di vedetta. Don Camillo diventa shomer, il custode, come Isaia (capitolo 21), il profeta che fedele nella sua torre di guardia risponde alla gente che gli chiede ‘quanto resta della notte?’, e dice che l’alba arriverà. È colui che sta, e nel suo stabat dialoga con la sua gente che chiede e ha paura della notte. Un'altra immagine splendida dei tanti sacerdoti, missionari, suore, frati, che fedeli nei loro posti di guardia durante le alluvioni, le catastrofi, le carestie, le guerre, continuano ad annunciare l’alba del Regno: “Un fatto però era certo: adesso, sapendo che don Camillo rimaneva là, a Peppone pareva che il paese fosse molto meno allagato” (pp. 275). Anche se la gente lo ha dimenticato, i paesi sono meno allegati quando, da qualche parte, c’è un ‘don Camillo’ che prega e che ‘sta’.

Nel frattempo, il Maroli non voleva abbandonare la sua casa: “Non mi muovo, sono malato, voglio morire a casa mia! Voglio morire in questo letto dove è morta la mia donna” (p. 275). Soltanto una nipotina di dodici anni, Rosa, restò al suo capezzale. E così, “il vecchio e la ragazza rimasero soli nella casa abbandonata” (p. 279). Una sera, Rosa va da don Camillo e gli dice: “Il nonno ha voluto rimanere e io gli ho tenuto compagnia... – Sei rimasta e non hai avuto paura? – No, c’era il nonno. E poi si vedeva la luce in casa vostra e poi si sentiva la campana” (p. 283). Don Camillo andò a dargli l’estrema unzione, e il Meroli all’indomani morì, “da cristiano” – deve essere davvero bello poter morire, anche noi, ‘da cristiani’!

Don Camillo tornò davanti al suo Crocifisso, e gli disse: “Gesù, avete sentito? Non aveva paura perché vedeva la luce della mia finestra e sentiva la campana” (p. 285). I sacerdoti, i parroci, le suore ci amano in molti modi, ma soprattutto tenendo accesa la luce diversa nelle loro case e suonando per noi le campane.

(11 - continua)

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