Opinioni

L'autodeterminazione ideologica. Pendio scivoloso senza stop

Francesco D'Agostino mercoledì 15 aprile 2009
Le polemiche sul disegno di legge che ha per oggetto le scelte di fine vita si sono negli ultimi giorni, e giu­stamente, placate: la tragedia abruz­zese ha riproposto alla riflessione di tutti una verità elementare e cioè che la vita non è un valore di cui si possa calcolare l’entità, ma è piuttosto il pre­supposto ( incalcolabile!) di ogni va­lore: è questo, e non altro, il motivo per cui ogni tentativo, anche il più ar­rischiato e improbabile, di salvare u­na singola vita umana appare intrin­secamente giustificato, senza se e sen­za ma, anzi assolutamente doveroso. Ora però che lentamente le vicende abruzzesi si stanno incanalando ver­so una loro pur sempre tragica, ma i­nevitabile normalizzazione, comin­ciano a riemergere le polemiche e i di­battiti sul disegno di legge Calabrò e sul destino che lo attende nel passag­gio a Montecitorio. È ormai sufficien­temente chiaro che il nodo del dibat­tito, vertendo essenzialmente sul principio di autodeterminazione, è più ideologico che bioetico: esso è di vitale importanza agli occhi di tutti coloro che, nutriti da una visione an­tropologica radicalmente individua-­listica, ritengono che il mancato rico­noscimento legislativo dell’autode­terminazione rappresenti una lacera­zione insanabile nel sistema dei dirit­ti umani. Si aggregano a costoro tutti coloro che confondendo ( purtroppo!) l’autode­terminazione ( ideologica) con la li­bertà ( morale) ritengono che le scel­te di fine vita vadano sempre « religio­samente » rispettate. Che poi queste scelte siano pressoché sempre del tut­to astratte ( come quelle affidate a te­stamenti biologici) o motivate da si­tuazioni di abbandono, di paura, di confusione, di mancata informazio­ne è un dato che infastidisce le « ani­me belle » dell’autodeterminazione e su cui esse non si soffermano mai. Eppure, basta aprire gli occhi e guar­darsi intorno per capire ciò che sta succedendo. Una riflessione bioetica, serena e non ideologica, sulle dichia­razioni anticipate di trattamento e sul diritto al rifiuto delle cure potrebbe­ro trovare significativi punti di con­vergenza, come quelli che ormai da tempo si sono trovati in merito all’ac­canimento terapeutico, oggi concor­demente rifiutato da tutti e che sono stati recepiti in diversi documenti del Comitato nazionale per la Bioetica. Ma per l’individualismo radicale che ormai caratterizza la cultura occiden­tale, riconoscere il diritto al rifiuto del­le cure non basta. Il principio dell’au­todeterminazione ha una sua intrin­seca forza espansiva: se posso auto­determinarmi nel dire di no a una te­rapia, perché non posso autodeter­minarmi nel dire sì al suicidio assisti­to? E perché la mia autodetermina­zione andrebbe riconosciuta valida solo in contesti patologici estremi e non in ogni qualsiasi situazione, in cui a mia discrezione io voglia porre fine alla mia vita? Non sono domande e­sagerate o provocatorie: se ne discu­te con tutta serietà in diversi Paesi eu­ropei, in particolare in Svizzera, da quando Ludwig Minnelli ha dichiara­to che « Dignitas » , l’organizzazione da lui fondata, ritiene che sia una « pos­sibilità meravigliosa » quella di aiuta­re le coppie che siano desiderose di « morire assieme » e quella di favorire la morte del partner sano di un mala­to terminale.È su pretese del genere, su un « pendio scivoloso » di questo ti­po che vorremmo che i fautori no­strani dell’autodeterminazione espri­messero un’opinione, non solo chia­ra, ma soprattutto motivata; che ci di­cessero perché le condividono ( se le condividono) e – se non le condivi­dono – come pensano, nel contesto di un’autodeterminazione rivendicata come diritto della persona, che le si possa rifiutare, esplicitamente e sen­za alcuna ambiguità.