Opinioni

Paura e repressione (non solo) a Istanbul. Ma la libertà è più forte

Giorgio Ferrari mercoledì 12 giugno 2013
​«Nessuna società – scriveva Karl Popper in La società aperta e i suoi nemici – può predire scientificamente il proprio futuro livello di conoscenza». Non a caso l’eterna tentazione di ogni satrapia è quella di chiudere la bocca a chi protesta e di convogliare il consenso attraverso canali giudicati sicuri, come i giornali, le televisioni e le stazioni radio, che ogni regime autoritario può più facilmente limitare, condizionare e controllare (molto dipende dai giornalisti che ci lavorano, dagli editori e dalla fedeltà dei lettori...). Ma la piazza virtuale che in anni recenti si è venuta a creare con la nascita dei social network come Facebook e come Twitter è senza confini e soprattutto non è condizionabile. Da Fidel Castro a Gheddafi, da Mubarak a Bashar al-Assad, passando per la Cina e in qualche misura anche la Russia, tutti i regimi che ostentano un simulacro di democrazia, ma nascondono nella realtà una filigrana autoritaria, hanno orrore del flusso incontrollabile che passa per Internet. Per questo lo vietano, lo condizionano, lo censiscono, in casi estremi addirittura lo oscurano.Recep Tayyip Erdogan, il vittorioso leader dell’Akp, il politico dal grande fiuto che ha portato la Turchia a una crescita dell’8 per cento annuo radunando un consenso che sfiora il 50% dei suffragi e che tuttavia ha definito Twitter «la cancrena nazionale», non fa eccezione. La polizia che entra con idranti, mezzi blindati, gas lacrimogeni e spray urticanti fra le sgangherate falangi di contestatori di Piazza Taksim e Gezi Park a Istanbul, in piazza Kizilay a Ankara, nelle vie di Smirne, di Adana, di Antakya attuando quella tolleranza zero imposta dal premier, non basta a scongiurare la minaccia che fa tremare i vertici della nomenklatura turca: quella di una libera opinione che si confronta senza mediazioni.Le cifre in questo senso sono spietate: la Turchia è fra primi dieci Paesi del mondo per utilizzatori di Facebook e Twitter, con 36 milioni di utenti e una crescita negli ultimi due anni del 300%. Ogni giorno due milioni di messaggi vengono inviati in media ogni otto ore. Mentre scriviamo, mentre cioè i reparti antisommossa della polizia di Istanbul accerchiano Gezi Park smentendo la promessa del governatore della regione di non torcere un capello agli studenti e ai giovani che lo occupano, il flusso di messaggi è verosimilmente raddoppiato. Nei giorni scorsi le autorità turche hanno arrestato una cinquantina di persone: adoperavano Twitter per segnalare dove avvenivano gli scontri, magari anche soltanto per avvisare un parente o un amico del rischio di rimanere coinvolto. Gli arrestati rischiano dieci anni di prigione e si trovano in compagnia di alcune decine di giornalisti, già incarcerati per aver criticato il governo, e da qualche ora anche di una settantina di avvocati, che hanno protestato davanti alle camere penali per la brutalità degli interventi.Non stupiamoci. L’idea del controllo sociale ha origini millenarie. Nell’antica Roma la nota censoria rispondeva alla necessità di accertare il reddito, l’appartenenza, la gens e da ultimo il profilo morale dell’individuo e la sua eleggibilità alle cariche pubbliche. Ma già al tempo di Giulio Cesare nelle Gallie era vietata la diffusione di notizie che non fossero state preventivamente approvate da un magistrato.In questi stessi giorni sull’altra sponda dell’Atlantico soffia rovente il vento di un dibattito cruciale per le libertà individuali: può un governo come quello americano scrutare nei meandri più sottili delle relazioni umane, nelle maglie delle conversazioni telefoniche, delle mail, dei messaggi dei telefoni cellulari nel nome della sicurezza nazionale e della lotta al terrorismo? E una società che si va oramai modellando su una simultanea e universale possibilità di connessione orizzontale  – che, non nascondiamolo, offre ampi spazi all’abuso, all’arbitrio e anche al crimine – è o non è espressione avanzata di una democrazia diffusa? La risposta sembrerebbe ovvia, ma in molti angoli del mondo questa radicale trasformazione – la Turchia di oggi insegna – è vissuta come un pericolo estremo. Come se, in ultima analisi, la libertà di espressione della persona, quell’<+corsivo>ultimo miglio<+tondo> che ancora separa tanti da una democrazia compiuta, fosse il peggiore dei mali. Ma, piaccia o non piaccia a satrapi e autocrati,  siamo su un cammino che nessuno può fermare.