Opinioni

Le pensioni, il debito e il Patto di stabilità europeo. E a sorpresa il nostro fardello è più leggero di quello dei vicini

Giuseppe Pennisi giovedì 2 settembre 2010
La crisi economica in corso dal 2007 è stata la molla per rivedere il "Patto di crescita e di stabilità" o tramite una revisione del trattato oppure attraverso un protocollo interpretativo. In questo contesto, Lituania, Lettonia, Bulgaria, Svezia, Slovacchia, Ungheria, Romania, Polonia, e Repubblica Ceca hanno proposto che nella revisione del Patto si tenga conto degli effetti delle riforme delle pensioni (sia effettuate sia in cantiere). È una proposta sensata poiché in un’Unione europea che invecchia (più ancora nell’area euro), il peso del debito a carico delle generazioni future è, pure ad una lettura superficiale, più importante delle oscillazioni dell’indebitamento annuo. Inoltre, in un’area in cui prevalgono sistemi previdenziali pubblici, il debito previdenziale attualizzato (ossia riportato al suo valore odierno) e rapportato al Pil ha un significato ancora più pregnante del mero rapporto tra stock di debito pubblico e Pil. In Italia si sono subito levate voci contrarie a questa proposta a ragione del nostro elevato debito pubblico rispetto alla media dell’area dell’euro. Sono preoccupazioni immotivate e su cui la diplomazia economica italiana dovrebbe riflettere alla luce dei calcoli esistenti e non di approssimazioni emotive.I calcoli più pertinenti sono quelli pubblicati in primavera da Nicholar Barr e Peter Diamond, fra i massimi esperti di pensioni, in due volumi di studi comparati sulla previdenza nei Paesi Ocse; in un lavoro di Robert Holzmann, a lungo in Banca mondiale e in un’analisi di Jagadeesh Gokhale, del Cato Institute. In breve, il debito pubblico italiano è da capogiro se si include anche quello degli istituti previdenziali: ben il 364% del Pil. È, però, inferiore alla media dell’Ue a 25 (ossia senza considerare Bulgaria e Romania): un massiccio 434% del Pil, con i dati per la Polonia (1.550%), della Slovacchia (1.149%) e della Grecia (875%), addirittura da svenimento. Ma quello italiano è in realtà un fardello meno pesante anche di quelli di Francia (550%), Gran Bretagna (442%) e Germania (418%). Pare addirittura leggero se raffrontato alle stime per gli Usa, dove ad un debito pubblico totale (Governo federale, Stati dell’Unione, previdenza obbligatoria, sanità per i poveri e gli anziani) che sfiora il 500% si aggiunge un debito di individui, famiglie e imprese pari al 300% del Pil.Non c’è da stare allegri, soprattutto per le nuove generazioni. Altrove, però, la situazione è ben peggiore che da noi, soprattutto in Francia, oltre che in Grecia, Paesi nei quali l’età "normale" della pensione è di 60 anni. Non a caso sia Sarkozy sia Papandreu hanno tentato di cambiare le regole, ma per ora senza alcun esito. Il lavoro di Holzmann indica il sistema contributivo figurativo (di cui Italia e Svezia sono stati i precursori nel 1995) come la strada da seguire per rimettere le cose a posto in Europa. Analoghe le conclusioni dei due volumi di Barr e Diamond, anche se, correttamente, insistono per una serie di modifiche per rendere più semplici gli adeguamenti alla dinamiche demografiche ed economico-finanziarie. Modifiche già inserite nella riforma svedese del 1995 e previste nell’aggiornamento effettuato pochi mesi fa sull’impianto delle riforme impostate in Italia 15 anni fa.Possiamo, quindi, presentarci a testa alta: da un lato abbiamo un "peso" previdenziale, certo elevato, ma inferiore alla media dell’area dell’euro e di quello di molti nostri vicini; da un altro, abbiamo un sistema esemplare (tanto che lo stanno imitando numerosi Paesi neocomunitari, Polonia in testa). E soprattutto abbiamo già reso l’età legale di pensionamento flessibile e agganciata all’aspettativa media di vita.