Opinioni

Dall'assalto al bowling al suicidio in cella. L'ultimo disperato appello di una strada sbagliata

Maurizio Patriciello mercoledì 28 aprile 2010
Giuseppe Palumbo, figlio di Castrese, boss di Marano, vicino al clan Nuvoletta, insieme a sette complici, fu protagonista, un mese fa, di due spettacolari raid punitivi, in una sala giochi di Giugliano prima e al bowling di Pozzuoli dopo. Come forsennati, passamontagna in testa, entrano, incuranti delle telecamere, e sparano all’impazzata sui video giochi. Gli avventori vengono fatti stendere per terra. Pochi minuti e nessuno dei presenti dubiterà più che l’inferno esista. Attimi di grande confusione. Il sangue pulsa forte nelle vene che sembrano voler esplodere, mentre il sudore, freddo come il ghiaccio, scende per il corpo. La mente si blocca, incapace di pensare e di capire. Finalmente vanno via, non senza aver colpito una macchina che tardava ad allontanarsi, ferendo il conducente. Il movente. La moglie di Giuseppe lo ha abbandonato e si è rifugiata dallo zio. Nella villa milionaria, con piscina, salotti e vini prelibati si sente soffocare. Tanta ricchezza ostentata, ma niente libertà. Va via, per le strade della vita. Via per contemplare il cielo, per ridiventare donna. Per amarsi occorre essere in due e respirare libertà. L’amore pretende pari dignità. Giuseppe, il dittatore che terrorizza tutti a colpi di kalashnikov, non riesce a rassegnarsi. Non è abituato a dialogare, ad ascoltare le ragioni dell’altro, ad avere il coraggio di chiedere perdono e corre a punire chi l’ha aiutata a realizzare il suo progetto. Poi vola a Parma a raccontare tutto al padre, detenuto in carcere. Non sanno i due che il colloquio viene registrato. Ingenui. Violenti e ingenui. Giuseppe viene arrestato e condotto nel carcere di Firenze, mentre a Napoli si tira un respiro di sollievo. Dopo solo due giorni ecco giungere l’altra notizia dolorosa: Giuseppe Palumbo si è suicidato in carcere. Di nuovo si rimane sbigottiti, ancora si tenta di capire. Il suicidio di un giovane, forte, ricco e camorrista, che tiene in pugno un paese intero, deve indurre alla riflessione tutti, a cominciare dai parenti. Abbiamo grande rispetto delle lacrime di chi gli voleva bene, ma sarebbe poca cosa fermarsi alla sola compassione. La breve vita - aveva 34 anni - e l’orribile morte di un malavitoso ci chiamano a riflettere, a non voltare facilmente pagina. Ai genitori vorremmo chiedere: «Sapreste dire oggi chi era vostro figlio? Siete mai riusciti a leggergli nel cuore? Vi ha reso mai partecipi delle sue ansie, delle sue paure?». Penso che, come tanti coetanei, desiderasse vivere in pace, alla luce del sole, senza nascondersi e senza temere per la vita sua e quella dei suoi cari. Ma fin da piccolo gli era stata tracciata la strada per la quale camminare, all’apparenza comoda, ma ricolma di mille insidie. Una vita dove il mondo appare capovolto; dove il male è confuso con il bene e chi lotta per il bene è visto come un ingenuo da dover solo compatire. Può un camorrista permettersi il lusso di soffrire per amore o di piangere quando si ammazza un uomo? No, gli uomini forti non piangono, gli avevano insegnato. Nessuno saprà mai chi siano questi giovani spavaldi e violenti. È difficile dire dove finisca la maschera che indossano e dove cominci il loro volto vero. Perciò continuiamo a sperare contro ogni ragionevole speranza; a remare anche quando verrebbe voglia di tirare i remi in barca. Disapproviamo vivamente la vita che menava Giuseppe come il gesto scellerato di porre fine ai suoi giorni. Però, a ben guardare, esso potrebbe essere l’ultimo, disperato appello di chi vuol gridare al mondo che il benessere economico raggiunto con la violenza ed il sopruso, prima o poi presenta il conto. E il prezzo chi si rischia di dover pagare è veramente atroce.