Lettere. Passare per la «porta stretta» del dolore: una scuola che apre agli altri
Caro Avvenire,
seguo con attenzione le lettere al giornale e le risposte date ai lettori. La risposta data alcuni giorni fa da Marina Corradi a quel catechista che si è separato dalla moglie e si è ritrovato abbandonato dalla comunità parrocchiale mi ha fatto riflettere. Corradi ha inserito brevemente un dato personale, autobiografico, ha detto di essere passata da bambina attraverso una separazione e di avere sperimentato la stessa solitudine. Ha insomma accennato a un suo «passaggio per la porta stretta» della sofferenza. Sarò breve, senza troppe citazioni. Verrò subito al punto citando solo il Vangelo del giovane ricco «che se ne andò via triste». Anch’io vivo quotidianamente a contatto con sacerdoti e laici nelle parrocchie, poiché faccio l’organista, e posso dire che, purtroppo, fin che non si passa per quella porta stretta, non si capisce nulla, né di Gesù, persona 'viva', né del nostro essere cristiani. Ci sembra di capire, grandi e piccoli, dai più alti in grado (che papa Francesco ogni tanto richiama) ai «cristiani di pasticceria» (sempre Francesco), ma in realtà, fin che non passiamo dalla porta stretta non riusciamo davvero a 'farci prossimi'. Santa giornata.
Danilo Romanò
Il signor Romanò si riferisce allo sfogo di un credente, molto impegnato con sua moglie in parrocchia, che raccontava ad 'Avvenire' come, finito dopo vent’anni il suo matrimonio, credeva di poter contare sulla amicizia e sulla solidarietà dei parrocchiani e invece si era ritrovato completamente solo. Abbandonato lui e anche i suoi figli, cui nessuno sembrava sapere cosa dire. Nel rispondere avevo brevemente accennato alla solitudine che segue una separazione, sperimentata anche da me, da bambina. Il lettore commenta: finché non si passa dalla «porta stretta» della sofferenza, non si capisce nulla, né di Cristo, né del prossimo. Penso che ci possa essere del vero. Si può crescere in una famiglia cristiana, essere educati alla fede e ai Sacramenti ed essere ottime persone. Talmente ottime da non riuscire a immedesimarci nella sofferenza di chi, d’improvviso, dalla vita è messo in ginocchio. Magari anche per una sua colpa, per un errore commesso; oppure per una malattia, un lutto, un abbandono. Chi non ha mai provato a essere spinto alle corde da un dolore può compatire, essere solidale, ma non autenticamente immedesimarsi nell’altro. Non può capire, non sa lo sgomento, l’avvilimento, e soprattutto il dubbio: il dubbio anche su Dio, che logora e può portare alla disperazione.
Tutti, e anche io, preghiamo per i nostri figli che la vita sia buona con loro, e li protegga dalle prove più dure. Vorremmo che vivessero da cristiani, sì, ma come in una lieta nuvola, salvi da tradimenti, povertà, solitudine. In realtà, però, è proprio la fatica di vivere e anche il dolore ciò che mette alla prova e scava un solco interiore, in cui nasce un uomo nuovo. Uno che, essendosi sentito almeno una volta un miserabile, non guarderà ai poveri e agli emarginati e agli abbandonati come a persone diverse da lui, ma come fratelli. (Non è forse questo sguardo che manca, nel crescente accanimento che avvertiamo in Italia contro migranti e poveri? Come il gridare di gente, che non ha mai provato sulla sua pelle il vero bisogno). La «porta stretta» di cui parla il signor Romanò, forse è l’unica che apre una strada vera. Noi non vorremmo mai trovarcela davanti, e preghiamo di evitarla. Tuttavia certamente il dolore è una scuola grande. È il passaggio da cui può scaturire una vita rinnovata. Perché è profondamente vero, e lo si impara con gli anni, ciò che leggevamo a scuola su I Promessi sposi: «Dio non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per darne loro una più certa e più grande».