Il direttore risponde. Parole senza Dio. E con Dio
Caro direttore,
la ringrazio per il lusinghiero interesse verso il mio libriccino "La democrazia ha bisogno di Dio. Falso!" (Laterza). Naturalmente mi sarebbe piaciuto che accanto alle espressioni di fastidio (laicismo "scontato" e "stereotipato") il suo editorialista avesse imbastito uno straccio di argomentazione, almeno contro una delle mie tesi. Ad esempio, contro quella centrale per cui «la fede deve essere relegata a fatto privato». Tesi assurda? Io ho provato a dimostrarla così: la democrazia liberale non si riduce al voto, essenziale è il costante dia-logos tra tutti i cittadini, attraverso cui argomentare razionalmente e convincersi a vicenda. Su molte leggi ci si dividerà, ma «a ragion veduta». Altrimenti la democrazia diventa «muscolare» e dalla mera conta dei voti si passa facilmente ad altri rapporti di forza. Ma in un dia-logos razionale io non posso sostenere una mia proposta di legge (ad esempio favorevole al suicidio assistito) «perché sì». Non sarebbe argomentazione ma ukase. E lei, che immagino sia contrario al diritto all’eutanasia, non potrebbe cavarsela con un «perché così vuole Dio», visto che la sua fede può essere un argomento solo per chi la condivide ma rispetto ad ogni cittadino miscredente o diversamente credente sarebbe mero "flatus vocis". Se per essere tutti con-cittadini fra tutti noi ci deve essere dia-logos, l’argomento Dio e l’argomento «perché sì» non possono avere cittadinanza, sono entrambi dogmatici, sono l’opposto dell’argomentazione. Lei dovrà trovare argomentazioni puramente "terrene" per sostenere che l’assistenza al suicidio venga punita fino a 12 anni di carcere (questa la legge attuale). Cioè argomentazioni atee, da a-theos, Dio preceduto dall’alfa privativo. Nella vita pubblica il cittadino credente, poiché tenuto ad argomentare, deve lasciare Dio a casa. Aggiungevo: esattamente come accade allo scienziato credente (sono un’esigua minoranza ma ci sono) che lascia il suo Dio nel vestibolo del laboratorio, dove valgono ipotesi e controlli empirici tra i quali Dio onnipotente, anima immortale e altri articoli di fede non sono ammessi.
Capisco che un dia-logos per argomenti razionali metta i credenti in difficoltà sulle questioni bioetiche «non negoziabili». Come pretendere, ad esempio, che la mia vita non appartenga a me, e quindi non riconoscere il mio diritto a decidere liberamente sul mio fine vita, anche facendomi aiutare ad abbreviarlo, se ritengo che ormai sia per me solo tortura? Con argomenti puramente "terreni" è impossibile riuscirci, e tutti i cardinali che negli anni hanno discusso con me pubblicamene (Ratzinger, Scola, Herranz, Tettamanzi, Caffarra, Piovanelli …) hanno dovuto "arrampicarsi sugli specchi". Solo se facciamo intervenire Dio, e la mia vita come Suo dono, la mia decisione può essere messa in discussione (ma un dono che non si può rifiutare è davvero un dono? Sembra più una condanna).
A me sembra in realtà che oggi la Chiesa abbia paura del confronto, o accetti il dialogo solo con atei di sua elezione. Lo conferma del resto l’editoriale del suo giornale che contrappone alla mia laicità «datata» e insopportabile quella evidentemente più gradita degli Agamben e degli Scalfari.
Paolo Flores d’Arcais