Opinioni

Editoriale. Le Paralimpiadi e la pace da fare coi nostri limiti

Luca Russo venerdì 6 settembre 2024

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Le Paralimpiadi di Parigi, dalla parata inaugurale in poi, mantengono il sapore unico di una festa senza paragoni. Sembra che nel corso delle edizioni ci sia stata un’escalation non solo dell’attenzione internazionale che questo evento merita ma anche della densità delle riflessioni che vi ruotano attorno. E al di là dell’agonismo, si respira un clima di festa di paese in cui l’umanità è il dress code di ingresso.

Le Paralimpiadi nascondono sottotraccia un “guazzabuglio” umano di storie e dolori, direbbe oggi Manzoni. Ogni atleta è un racconto inedito, un succedersi incalzante di imprevisti, di allarmi, di attese, ansie, delusioni. Ciascuno di loro potrebbe raccontare storie raccapriccianti di attimi tragici, di notti insonni e dolori insopportabili. Quanti potrebbero dire la solitudine di certi frangenti interminabili, di angosciose delusioni. Quanti referti medici incomprensibili, o a volte fin troppo chiari e inappellabili: “Non c’è più niente da fare”. Fino ad arrivare al punto, per alcuni, di decidere se lasciarsi andare all’inesorabile decorso clinico, o ancora credere ostinatamente di essere vivi. I particolari non li conosciamo, restano depositati nella cassaforte della coscienza personale di ciascun atleta o nell’oblio di un dramma senza fine.

L’atleta della Paralimpiadi non è una star da red carpet ma una persona fatta di evidenti fragilità e sottaciute debolezze, palesemente capace (si legga: contenitore) di umanità. Si potrebbe banalizzare pensando che i nostri atleti siano esempio di riscatto, di rivincita personale, di superamento delle barriere ideologiche. Sì è vero, ma non basta.

L’atleta delle Paralimpiadi è campione di umanità perché ha talmente esplorato in lungo e in largo il dolore umano che ne conosce ogni dimensione e fin troppi dettagli. Della comprensione umana è maestro, perché sa cos’è la solitudine, lo stare di fronte a sé stesso. Sa cosa significa affrontare a mani nude il confine del proprio esistere e guardare in faccia la propria debolezza. Ha parlato a tu per tu con la morte, ha fatto esperienza di poter cedere al declino dei suoi giorni. Ha dimestichezza con gli ospedali, con le sale operatorie, con aghi e sacche di sangue.

E allora non si tratta solo di riscatto ma soprattutto di abitare il proprio limite, di accogliere sé stessi con le proprie vistose vulnerabilità e le meno evidenti paure. L’atleta delle Paralimpiadi ha prima di tutto fatto pace con il proprio limite. Ha accolto le proprie mancanze, ha smesso di imprecare per quanto gli manca o contro il vicino cha ha qualcosa in più. La disabilità non è una malattia da dimenticare, ma la condizione umana da indossare.

Abitare la disabilità è rimanere nella propria fragilità senza odiarla. L’atleta delle Paralimpiadi è un’affermazione della dignità dell’uomo. È come dire che ognuno di noi ha valore per il solo fatto di essere se stesso, con tutti i suoi limiti e debolezze. E la vita mai potrà essere messa in discussione a motivo della sua caducità e della finitudine che ne è la sostanza. Ogni atleta è un inno di gioia, un inno alla vita. Una prova documentale che nessun limite fisico o mentale potranno impedire di vivere tutta la pienezza possibile della vita. E allora, non è necessario superare sé stessi: basta rimanere sé stessi, per essere campioni.