Opinioni

Reportage. Papua Nuova Guinea, la terra lontana che Francesco rimetterà “al centro”

Anna Pozzi mercoledì 10 luglio 2024

Capanna tradizionale in Papua Nuova Guinea

Lontana è lontana, si sa. Ma isolata lo è più di quanto si possa immaginare. « Papa Francesco verrà sin qui? È una grazia enorme!». C’è stupore, attesa, gioia, riconoscenza in Papua Nuova Guinea, dove il Pontefice si recherà nel viaggio apostolico che comprende anche Indonesia, Timor Est e Singapore dal 2 al 13 settembre.

La Papua Nuova Guinea, tuttavia, è davvero «l’ultima frontiera - come ci fa notare l’arcivescovo di Rabaul, monsignor Rocus Tatamai -. È la periferia della periferia». Che, una volta di più, Papa Francesco mette al centro.

Se ne rendono conto i cattolici di questo Paese (circa il 26% dei 10 milioni di abitanti) che attendono l’“uomo grande” che visiterà la loro terra, facendo tappa non solo nella capitale Port Moresby, ma anche nella cittadina di Vanimo, al confine con l’Indonesia, con cui divide l’isola principale. Tutt’intorno, un vasto e frastagliato arcipelago di seicento isole disseminate nell’Oceano Pacifico, che rischiano di scomparire a causa dell’innalzamento del mare.

Costituito dalla parte orientale dell’isola principale
e da un vasto arcipelago nel Pacifico,
il Paese ospita oltre due milioni di cattolici

È il Paese della meraviglia e dei contrasti, la Papua Nuova Guinea. Alte montagne e fitta giungla, vaste spiagge e foreste di mangrovie. La natura è imponente e primordiale. Il Paese custodisce la terza più grande foresta tropicale al mondo, dopo l’Amazzonia e il bacino del fiume Congo, e una biodiversità straordinaria. Una terra-madre per i molti e antichissimi popoli che hanno vissuto per migliaia d’anni nel totale isolamento, sviluppando oltre 800 lingue diverse. E mantenendo usi, costumi e stili di vita ancestrali. La cifra dell’isolamento, del resto, è uno dei tratti distintivi anche dell’oggi.

Tutto qui è distante. La dimensione dello spazio, tuttavia, non si misura in chilometri. Sono pochissime le strade, anche a causa della conformazione orografica del territorio, e sono impervie, spesso sterrate, non di raro pericolose, per le continue frane, la presenza di banditi, gli scontri inter-comunitari. La maggior parte delle principali località è raggiungibile solo in aereo per i pochissimi che possono permetterselo. L’80% della popolazione vive in zone remote, producendo il poco che serve alla sussistenza e al baratto. « In caso di calamità naturale, come la recente frana nella provincia di Enga, di irregolarità delle piogge o di inquinamento causato dall’estrazione mineraria la gente rischia di morire di fame», ci spiega la responsabile nazionale della Caritas, Maris Tito.

Sembra impossibile in una terra tanto rigogliosa eppure succede di frequente. « Nelle scorse settimane abbiamo ricevuto un appello urgente del vescovo di Daru-Kiunga nella Western Province, dove le compagnie minerarie hanno riversato i sedimenti dei loro scavi nel fiume Ok Tedi, che ha inondato le coltivazioni. La gente è affamata e non ha acqua potabile». Crisi climatica, attività minerarie indiscriminate, disboscamento incontrollato, arretratezza delle infrastrutture, oltre alla diffusa corruzione, contribuiscono a fare della Papua Nuova Guinea - indipendente dall’Australia dal 1975 - il Paese più povero dell’Oceania e a renderlo ogni giorno più fragile e vulnerabile.

Una scuola cattolica a Papua Nuova Guinea - A. Pozzi

«È un tempo di grandi sfide per noi», ci dice il cardinale John Ribat, arcivescovo di Port Moresby, una città moderna di circa 500 mila abitanti: strade larghe, alti palazzi, centri commerciali e molti cantieri in corso. È l’unico vero grande centro urbano del Paese, polo di attrazione di moltissimi migranti interni, soprattutto giovani (il 40% della popolazione ha meno di 15 anni), alla ricerca di migliori opportunità e di maggiori libertà rispetto al villaggio. Spesso però le loro speranze e aspettative vengono deluse. Sia perché loro stessi non hanno formazione e competenze; sia perché la città non riesce a dare a tutti lavoro e alloggio. Qua e là, sulle colline, si vedono insediamenti informali e abusivi che vanno ad aggiungersi a quelli dei profughi fuggiti dalla West Papua (Indonesia): decine di famiglie che sin dagli anni Ottanta vivono ammassate in nonluoghi fatti di pareti di lamiera e teloni di plastica, senza servizi e senza diritti. Anche di loro si occupa la Chiesa cattolica attraverso il servizio per i migranti e i rifugiati.

«La principale sfida per noi è formare le persone e specialmente i giovani - continua il cardinale Ribat -. Ancora oggi gestiamo circa il 25% delle scuole soprattutto nelle zone più remote, in collaborazione con il governo. Ma non è sufficiente». Lo stesso vale per la sanità. Anche in questo campo, nonostante gli sforzi di un settore ben strutturato con una trentina di operatori a livello nazionale e referenti in tutte le diocesi, non basta. Spesso le strutture risalgono a decine di anni fa, realizzate dai missionari stranieri che ora sono notevolmente diminuiti. La Chiesa autoctona sta crescendo, ha parecchie vocazioni, ma pochi mezzi. Lo Stato dovrebbe farsi carico della manutenzione e degli stipendi sia delle scuole che dei centri sanitari, ma se la prima è inesistente, i salari spesso sono in ritardo. « Per non parlare delle medicine che a volte sono irreperibili per mesi si lamenta suor Valsi, indiana, delle Suore dello Spirito Santo, responsabile del centro sanitario di Alexishafen, nei pressi di Madang, sulla costa nord-orientale.

Alexishafen è un luogo-simbolo della storia della Chiesa in Papua Nuova Guinea, che tradisce nel nome l’origine tedesca dei primi missionari della Società del Verbo Divino che vi sbarcarono alla fine dell’Ottocento e che da qui evangelizzarono un territorio vasto e impervio, spingendosi tra le montagne e nel folto della foresta. Ma è anche una località storica, dove si ricordano i tragici combattimenti della Seconda Guerra mondiale nel Pacifico. La missione, infatti, venne utilizzata dai giapponesi come deposito per le munizioni e fu completamente distrutta dai bombardamenti alleati. Solo la croce sopravvisse quando l'esercito australiano liberò l'area nell’aprile del 1944.

Oggi la missione di Alexishafen comprende un centro pastorale e uno di formazione dei catechisti, le scuole primarie, una casa protetta per donne e ragazze vittime di violenza e, appunto, il dispensario. «La gente viene da posti molto lontani, perché non ha altre possibilità di curarsi - continua suor Valsi, che è in Papua Nuova Guinea da 32 anni -. Noi cerchiamo di fare formazione nei villaggi e incoraggiamo la gente a venire qui, specialmente le donne, perché possano partorire in condizioni igienico- sanitarie accettabili. Ma poi dobbiamo sempre lottare per ottenere le medicine e perché venga fatta la manutenzione degli edifici che ormai sono vecchi, così come la nostra ambulanza che ha più di vent’anni!».


La capitale Port Moresby unico centro urbano
La Chiesa in prima linea
per la promozione umana
Il cardinale Ribat: gestiamo il 25% delle scuole

Sulle isole, specialmente le più piccole, le cose non vanno meglio, anzi. Innanzitutto, perché è difficile arrivarci o andarsene. Solo le più grandi, infatti, sono raggiungibili con voli irregolari. In tutte le altre ci si arriva con piroghe o piccole barche, che partono quando sono cariche - di persone e di merci - e arrivano quando riescono. Spesso ci vogliono giorni per giungere a destinazione, ma quando i marosi sono minacciosi come in questo periodo, non si parte e basta. Si attende. Anche la dimensione del tempo non si misura con l’orologio: è strettamente legata agli agenti atmosferici e ai ritmi della natura, allo stile di vita tradizionale e alle relazioni.

Woodlark, la prima missione del Pime e quella del primo martire - il beato Giovanni Mazzucconi, ucciso nel 1855 - non è cambiata di molto. L’isola rimane remota e ostile ai cattolici che sono a malapena una ventina. Il Pime però è tornato nel 1981 su un’altra isola, quella di Goodenough, dove a Watuluma porta avanti la parrocchia e, insieme alle Missionarie dell’Immacolata, le scuole sino alle superiori e un centro sanitario. E tanti progetti sociali per una popolazione poverissima. È una delle tante testimonianze della solidarietà che continua a legare l’Italia alla Papua Nuova Guinea.

Un legame ribadito anche dalla recente inaugurazione di una nuova scuola secondaria, la Holy Trinity Humanities School, costruita su sollecitazione di Papa Francesco e con i fondi della Conferenza episcopale italiana nella parrocchia di Baro, vicino a Vanimo, dove sono presenti i missionari argentini del Verbo incarnato. «Confermando la sua volontà di venire sin qui - riflette il cardinale Ribat -, il Pontefice ribadisce la sua vicinanza alle piccole Chiese, le Chiese alla fine del mondo come la nostra: vuole vedere come viviamo la nostra fede e come la condividiamo in contesti così piccoli e difficili. Per me, per i cattolici della Papua Nuova Guinea e per tutto il Paese, la sua visita è un segno di speranza e benedizione Ci incoraggia a unirci, a superare conflitti e differenze. E ci invita ad approfondire la nostra fede».