Opinioni

Editoriale. Papa Francesco e il primo passo per cambiare

Riccardo Maccioni giovedì 3 ottobre 2024

La parola chiave, il filo rosso, la serratura che apre il cuore alla vita dello spirito è “umiltà”. Nel senso evocato nel Libro dei Proverbi che la ricollega alla sapienza. Tipica di chi si curva di fronte alla grandezza di Dio. Cantata nel Magnificat. Simbolo dell’umanità che si gloria, come scrive san Paolo ai Filippesi, della grazia e della croce, non della propria intelligenza. L’umiltà, ha detto il Papa nel suo intervento inaugurale al Sinodo, che ci permette «di guardare il mondo riconoscendo di non essere meglio degli altri». È quello l’atteggiamento con cui domenica prossima e poi il 7 ottobre, anniversario del tragico agguato di Hamas a Israele, i credenti sono chiamati a pregare per la pace. E non a caso il primo appuntamento, che vedrà protagonista Francesco stesso e i sinodali, si svolgerà in Santa Maria Maggiore, Basilica carissima al Pontefice in cui è custodita una reliquia della sacra culla, cioè la memoria del più umile e straordinario dei doni, quello di un Dio che per la salvezza dell’umanità accetta di farsi creatura fragile, bisognosa di cure. Com’è appunto l’uomo quando non pretende di essere lui il centro di tutto, ma riconosce la propria dipendenza dall’infinitamente grande e gli apre il cuore per capire come mettersi al servizio del suo regno quaggiù in attesa di viverlo in pienezza nella vita che sarà. Perché la preghiera non è magia ma scuola di ascolto, è imparare, o almeno provarci, a vedere il mondo con gli occhi del Padre buono, è svuotarsi delle proprie sicurezze per accettare la scommessa dell’abbandono tra le braccia di chi promette di amarci come nessun altro mai.
Quasi inutile dire che non è per niente facile. Si tratta di lavorare sull’orgoglio, di rinunciare ad avere l’ultima parola, di ammettere che sì, quell’errore, quella prospettiva sbagliata, quel comportamento totalmente fuori luogo sono stati colpa nostra, esclusivamente nostra. La conseguenza o, meglio, il primo passo per cambiare, è chiedere perdono, senza pretendere di ottenerlo ma in nome della giustizia che, se non sempre guarisce le ferite, almeno le fa cicatrizzare così che smettano di far uscire sangue. Non a caso il primo ottobre in San Pietro, il Papa ha affidato ad alcuni cardinali delle pesanti ammissioni di colpa chiamando per nome i peccati commessi come Chiesa, verso le persone fragili, i poveri, i bambini. Negli abusi di coscienza, di potere e, terribile anche solo a dirsi, sessuali. E poi le offese al creato, contro la dignità delle donne, conseguenza dell’aver ingrigito e annacquato la novità del Vangelo finendo per ostacolare fino a bloccarla la creazione di una comunità veramente sinodale. È con questa consapevolezza delle proprie responsabilità, senza però cedere allo scoraggiamento, che Francesco invita i credenti lunedì prossimo a implorare il dono della pace nel mondo con una giornata di preghiera e digiuno. Cioè le armi, potenti proprio perché in apparenza spuntate, che la Chiesa usa da sempre contro i nemici più forti. Nel senso, ancora una volta, del paradosso del cristianesimo secondo cui è grande chi si fa piccolo, che innalza chi si abbassa e, quindi, dà forza con nutrimento spirituale a chi volontariamente rinuncia al cibo materiale.
Il richiamo è a tante pagine della Bibbia, dal digiuno di Mosè prima di ricevere le tavole della legge a Gesù che si ritira nel deserto per prepararsi a vincere le tentazioni del Diavolo. A partire da quegli esempi inarrivabili, nella misera e impaurita quotidianità che stiamo vivendo accettare volontariamente una privazione vuol dire riconoscere che la nostra stessa vita è un dono, di cui ogni uomo è perenne debitore. Chiedere la pace allora è riconoscere che abbiamo bisogno di un aiuto dall’alto, per capire davvero quanto male fa sentirsi i migliori, i più forti, i più giusti. Usando la violenza e l’inganno fino a bestemmiare Dio mentre ci si illude di parlare in suo nome, per dominare gli altri, per ridurli in schiavitù, per sfigurare la loro dignità. Tutto questo fa la guerra, perenne esercizio di arroganza ed egocentrismo. Nel segno di una rivendicata superiorità in realtà fasulla, perché la grandezza, quella vera, si alimenta di piccolezza, di dialogo, di mansuetudine. Di umiltà.