Il Papa che andrà il 16 aprile a Lesbo sembra dire all’Europa qualcosa di semplice: la direzione presa con il vertice Ue-Turchia, il respingimento di profughi e migranti dalla Grecia alla Turchia nell’operazione “uno a uno”, non va nella direzione giusta per un Continente che si vuole terra del diritto e della accoglienza. E, essendo Francesco uomo che preferisce i fatti alle parole, ha deciso di andare, subito e di persona a Lesbo, in uno di quei campi profughi che sono diventati di fatto delle prigioni. Forse nessun viaggio papale è mai stato organizzato con tanta rapidità. Francesco, evidentemente, aveva fretta.
Il 16 aprile Papa Francesco a Lesbo coi profughi
La ragionevole e sacrosanta fretta di dire all’Europa che sta sbagliando. Le navi che cominciano a partire da Lesbo per la Turchia sono cariche di uomini che hanno affrontato il deserto, la guerra, i trafficanti, il mare e la fame. Li si risospinge in un Paese che non offre complete garanzie in fatto di diritti umani. Davvero tutto questo non è violazione della Convenzione di Ginevra, si domandano in molti? Mentre i cronisti che assistono alle partenze scrivono di “deportazioni”. Ma l’Unione Europea pare soddisfatta. Secondo l’accordo raggiunto, la Turchia assume – a pagamento – il ruolo di “tappo” al flusso dei profughi, e il problema si sposta dunque oltre i nostri confini. A Lesbo, a Idomeni però c’è gente che giura che non si farà rispedire indietro. Ci sono anche centinaia di ragazzini soli. Che ne sarà di loro, ricacciati fuori dall’Europa?
Sembra di immaginare la fretta di Francesco, a spronare la macchina organizzativa vaticana. Sembra di immaginare, a fronte di ogni obiezione, la sua tenace volontà di andare.
Tre anni fa, quando andò a Lampedusa, il suo gesto era un grido contro i naufragi, contro le stragi in mare in un Occidente distratto, che a quelle stragi si era abituato. Oggi, mentre l’inferno siro-iracheno ha moltiplicato i profughi, l’andare di Francesco ha una valenza ancora più netta: contro una logica che produce accordi senza senso, perché senza umanità. Come l’intesa che, lasciando alla Turchia il compito di vagliare le richieste di asilo, sospinge una marea di uomini e donne, fuggiti da guerra e fame, nel terreno di un più che possibile arbitrio. Perciò è a Lesbo, l’ultimo lembo d’Europa nell’Egeo, che Francesco vuole andare. Là dove si caricano le navi di chi ha rischiato la vita per nulla, dei respinti, degli sconfitti, il Papa vuole andare.
Già alla Domenica delle Palme, parlando dell’indifferenza che Cristo ha sperimentato su di sé avviandosi verso la morte, Francesco aveva accostato quella solitudine a quella dei profughi – «di cui molti non vogliono assumersi la responsabilità». Parlava a noi occidentali, e prima di tutto a noi cristiani, ben sapendo come si possa definirsi tali e poi magari alzare muri e sbarrare porte, mandando, come ora l’Austria al Brennero, i soldati ai confini. È, questa indifferenza, ci ha detto Francesco, la stessa che duemila anni fa ha lasciato andare a morte un innocente. Per il Papa ciò che sta accadendo da anni nel Mediterraneo e nei Balcani è proprio figura della Croce. Lo ha detto il Venerdì santo alla Via Crucis: il Mediterraneo e l’Egeo divenuti «un insaziabile cimitero, immagine della nostra coscienza insensibile e narcotizzata».
iù chiaro di così, che cosa? Poteva solo decidere di andare: lui, in persona, con la sua veste bianca, accanto al Patriarca di Costantinopoli e al Vescovo di Atene, nei campi profughi. Di nuovo, come a Lampedusa o sul muro che divide il Messico dagli Stati Uniti, Francesco si è posto sul confine del “primo mondo”, accuratamente sigillato di sospetto, a dirci che sbarrare quelle porte potrà forse rispondere a calcoli politici, o a timori di “invasioni”, o alla logica prudente in cui quasi tutti viviamo: però, ricacciare indietro chi muore e domanda di vivere non è cristiano, non è civile e non è umano.
Nel quotidiano rumore di notizie più o meno importanti, dentro al nostro opaco chiasso, sopra alle nostre comode ragioni, Francesco a Lesbo sarà parola incarnata. Incontrerà quelli che si sono giocati tutto, e quelli che hanno perso, lungo la strada, un figlio o un fratello. Incontrerà gli umiliati, i trafficati, gli stipati come bestie su barche da niente, e spinti in mare dentro alla notte oscura; e i bambini, quelle centinaia di bambini e ragazzi che nemmeno hanno la madre o il padre accanto, e si danno il coraggio da soli. Le tv di tutto il mondo mostreranno, accanto al Papa, le loro facce, i loro occhi carichi di domanda, tra il filo spinato e gli agenti di Frontex.
E sarà, quel giorno a Lesbo, difficile fare finta di non vedere dov’è, il nostro Dio della Croce. Dove, se non in quegli occhi? Forse non fermerà, il viaggio del Papa, le navi della “controtratta” che risospingono indietro le schiere di ultimi. Ma dirà a noi, che guardiamo, di chi sono volto, quegli uomini. E chi siamo noi, che guardiamo altrove.