I prossimi interventi alla Ue. Papa Francesco, dalle periferie al cuore della vecchia Europa
Quando nel 1988 Giovanni Paolo II entrò nell’Aula del Parlamento di Strasburgo, non c’erano né l’euro, né il mercato unico, Schengen e Maastricht erano solo due località, rispettivamente nel Lussemburgo e in Olanda e soprattutto esisteva ancora il Muro di Berlino. Papa Wojtyla rivolse il suo discorso alla Cee dei 12 (che univa 330 milioni abitanti), cioè a un’Europa molto diversa rispetto a quella che si troverà di fronte, martedì mattina, Papa Francesco: 28 Stati membri e 507 milioni di persone rappresentate. È cambiata anche la sigla – Ue, cioè Unione europea – ma a ben vedere tra le due visite (e tutto quello che c’è stato nel frattempo) c’è una ideale continuità. Anche perché molti dei temi che il Pontefice polacco affrontò allora sono ancora attuali oggi, a partire dalla questione più fondamentale di tutte: qual è l’idea di Europa che sta dietro a questa grande istituzione? O, per dirla in altri termini, che tipo di democrazia si sta realizzando a Strasburgo e a Bruxelles? Dal 1988 ad oggi l’argomento è stato oggetto di numerosi approfondimenti da parte del magistero pontificio. Un magistero che, solo per limitare il campo alle occasioni analoghe, si è arricchito grazie ai discorsi dello stesso Giovanni Paolo II nelle sue visite al Parlamento polacco (1999) e italiano (2002) e di quelle di Benedetto XVI a Westminster (2010) e al Bundestag (2011), senza dimenticare l’intervento di Paolo VI all’Onu nel 1965 (pur non essendo l’Assemblea delle Nazioni Unite un Parlamento in senso stretto). Tutte occasioni dalle quali – in una lettura sinottica – è possibile ricavare alcuni punti fermi nella visione dei Papi sull’Europa e più in generale sulla famiglia delle nazioni. «Gli uni con gli altri e per gli altri, non gli uni sugli altri», come disse Montini al Palazzo di Vetro.Paolo VI all'Onu. 1965 Il primo lo si può formulare proprio prendendo a prestito un passaggio dell’intervento di 26 anni fa di Papa Wojtyla al Parlamento europeo. «Sin dalla fine dell’ultima guerra mondiale – disse in quella occasione il Pontefice –, la Santa Sede non ha mai smesso di incoraggiare la costruzione dell’Europa». E del resto, aggiunse, «come potrebbe la Chiesa disinteressarsi della costruzione dell’Europa, lei che è radicata da secoli nei popoli che la compongono (...), per i quali la fede cristiana è e rimane uno degli elementi della loro identità culturale?». Dunque per la Chiesa cattolica l’edificazione dell’Europa unita è cosa buona, come testimonia anche il fatto che questo processo ha contribuito in maniera determinante ad assicurare al Continente il più lungo periodo di pace e di sviluppo della sua storia. Ma a questa stessa Europa Papa Wojtyla e Papa Ratzinger hanno anche costantemente ricordato (ed è il secondo pilastro del loro magistero "continentale") da un lato che il processo di unificazione non può essere solo di tipo economico e monetario e dall’altro che all’Unione è indispensabile un’anima. Papa Giovanni Paolo II a Strasburgo, 1988 In sostanza, come disse Giovanni Paolo II in un famoso Angelus del 2003, lo spazio compreso tra l’Atlantico e gli Urali non è solo «un luogo geografico», ma soprattutto «un concetto prevalentemente culturale e storico, caratterizzatosi come Continente grazie alla forza unificante del cristianesimo, che ha saputo integrare tra loro popoli e culture». Citazione, questa, che si inserisce in una autentica offensiva lanciata quell’anno dall’ormai anziano Pontefice affinché le radici cristiane fossero esplicitamente menzionate nel Trattato allora in preparazione. Anche 15 anni prima, dal podio di Strasburgo, Papa Wojtyla aveva formulato una richiesta simile, sottolineando che «se il sostrato religioso e cristiano di questo continente dovesse essere emarginato dal suo ruolo di ispirazione dell’etica e dalla sua efficacia sociale, non è soltanto tutta l’eredità del passato che verrebbe negata, ma è ancora un avvenire dell’uomo europeo – parlo di ogni uomo europeo, credente o non credente – che verrebbe gravemente compromesso».Papa Benedetto XVI al Parlamento di Berlino, 2011 È in sostanza il fondamentale collegamento tra democrazia e valori autenticamente umani (di cui il cristianesimo è dal punto di vista storico la culla) che Giovanni Paolo II delinea nello stesso discorso («non vi è democrazia senza assoggettamento di tutti alla legge e non legge che non sia fondata su una norma trascendente del vero e del giusto») e che tornerà, tre anni dopo ad approfondire nell’enciclica Centesimus annus. «Una democrazia senza valori – scriverà – si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia», sottolineando anche che la verità è verità in se stessa e non è «determinata dalla maggioranza», né può variare «a seconda dei diversi equilibri politici». Non vi è chi non scorga qui il profilarsi dei grandi dibattiti sulla bioetica e sulla famiglia che avrebbero infiammato le due aule del Parlamento europeo nei decenni successivi, vedendo costantemente contrapposti «il punto di vista dei credenti e quello dei fautori di un umanesimo agnostico e a volte anche ateo». Con il corollario secondo cui il pensiero dei primi non sarebbe affidabile nei consessi politici perché incline a considerare «non negoziabili» valori come la vita, la famiglia e la libertà di educazione dei figli, in palese violazione dell’assioma della cultura dominante secondo cui tutto è relativo. Sono i temi sui quali si sofferma anche Benedetto XVI, nei suoi due discorsi al Parlamento britannico e a quello tedesco, portando in un certo senso "a maturazione" il pensiero del suo predecessore. A Londra, in uno dei luoghi simbolo della democrazia moderna, Papa Ratzinger dimostra che mettere a tacere la religione, o quantomeno relegarla alla sfera privata dell’individuo, è una tendenza che può avere gravi conseguenze. In tal modo, infatti, si svilisce l’etica democratica e il fondamento stesso del diritto e alla fine trova posto qualsiasi cosa. Anche ciò che è arbitrario. A Berlino, poi, torna sul concetto e, facendo esplicitamente riferimento alla tragica esperienza del nazismo, ribadisce l’imprescindibilità della legge naturale – già nota alla cultura greco-romana (si pensi all’Antigone di Sofocle; e non a caso il Papa afferma in quella occasione che «la cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma») – come fondamento della legge positiva. «La ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale – fa notare con immagine calzante –, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio».
Ora tocca a Papa Francesco, il primo Papa non europeo (se si escludono gli inizi della Chiesa). Bergoglio finora ha affrontato l’argomento sia con poche ma importanti parole («Europa nonna più che madre», per sottolinearne l’inverno demografico; «cultura dello scarto» con cui, parlando più in generale dell’Occidente, ha collegato temi bioetici e sociali), sia con gesti eloquenti. È significativo, ad esempio, che il suo viaggio a Strasburgo – cuore dell’Ue e sede del Consiglio d’Europa nel quale davvero tutto il continente è rappresentato – giunga dopo una tappa (l’Albania), anzi in un certo senso due (se consideriamo anche la visita a Lampedusa), nelle periferie del continente. «È un segnale che ho voluto inviare», disse a un giornalista, la sera del 21 settembre tornando da Tirana. Il segnale di un’attenzione tutta particolare agli ultimi, ai poveri, a chi arriva dal Sud del mondo, ai disoccupati, cioè alle categorie che non è azzardato attendersi possano trovare posto anche nei due discorsi di martedì prossimo. Ieri il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, ha detto in un’intervista che se non si affrontano i problemi reali della gente la fiducia nelle istituzioni europee percepite come «una realtà molto lontana e burocratica» può essere a rischio. Un indizio probabilmente di alcuni dei temi che il Papa affronterà continuando e aggiornando il discorso su democrazia e valori. Certamente con il suo stile, ma con una continuità indiscutibile rispetto ai predecessori.