Assalto a Gerusalemme. Palestina-Israele, la ferita aperta: un atroce promemoria
Quando noi ci dimentichiamo della Palestina, la Palestina si ricorda di noi. E lo fa nel modo violento e drammatico che le è ormai diventato tipico: sparando e uccidendo. L’assalto portato ieri al cuore di Gerusalemme, su quella Spianata delle Moschee che simboleggia tutto lo scontro epocale con Israele, è in primo luogo questo. Un modo per ricordare al mondo che non ci sarà pace in Medio Oriente e giusta sicurezza per Israele finché i palestinesi non avranno trovato giusta soddisfazione. E compresa in questo monito ci sono anche l’autoesaltazione di Hamas, che non ha rivendicato l’attentato ma lo ha approvato, e un messaggio politico molto preciso.
Abu Mazen e i vertici di al-Fatah possono sfruttare ogni appiglio per cancellare le normali forme di partecipazione democratica (le ultime elezioni generali nei Territori risalgono al 2006, e le vinse Hamas) e nascondere il vuoto di iniziativa politica. Ma le tattiche dilatorie, accoppiate alla mancanza di prospettive e alla corruzione, vanno a tutto vantaggio di chi non abbandona la strada della violenza, come dimostrano la durata (dall’autunno 2015) e il pauroso bilancio della cosiddetta "intifada dei coltelli" (40 israeliani e 300 palestinesi uccisi, oltre a quasi 10 mila palestinesi detenuti).
Il nesso tra l’ultima intifada e l’attacco alla Spianata è piuttosto evidente e sta nell’identità di uno degli assalitori, un arabo cittadino di Israele, libero quindi di muoversi per lo Stato ebraico. La minaccia più insidiosa per le forze di sicurezza israeliane, chiamate a confrontarsi con un nemico "interno", e per l’impostazione politica che Benjamin Netanyahu ha dato ai suoi Governi. Il "suo" Israele ostenta la sicurezza del vincitore e la consapevolezza di aver trasformato l’occupazione in un esproprio, affondato per sempre la soluzione dei due Stati e reso ormai quasi solo teorico il piano di tornare ai confini del 1967 (in realtà una pura linea armistiziale, ma l’unica riconosciuta dalla comunità internazionale).
L’evidente conseguenza di inasprire la frustrazione e il desiderio di vendetta dei palestinesi importa poco. Essi sono stati declassati, da Netanyahu e i suoi, da irresolubile problema politico a spinosa questione di ordine pubblico. E l’inasprimento delle loro già penose condizioni di vita (più controlli, più limitazioni quindi più povertà, più rappresaglie) che sempre nasce dopo attentati come questo, viene sfruttato come ulteriore vantaggio: colpisce gli onesti e non scalfisce le convinzioni dei terroristi, quindi aumenta le divisioni in seno al "nemico" palestinese. Con il risultato di cui sopra: nessuno si fida più dell’impotenza di Abu Mazen, molti ricadono nella tentazione della guerra.
È chiaro però che in questo momento, per un Medio Oriente gravido di svolte e colpi di scena, la sparatoria sulla Spianata delle Moschee prende sfumature diverse e persino più inquietanti. I rapporti tra Hamas e Daesh non sono mai stati chiariti, ma in generale si pensa che esista un’alleanza di fatto per quanto riguarda l’Egitto di al-Sisi, colpevole di aver raggiunto un’intesa con Israele e di aver stroncato i Fratelli Musulmani, in particolare nel Sinai. L’uccisione dei due soldati israeliani a Gerusalemme può essere un modo per distogliere l’attenzione dai recenti rovesci sofferti dai miliziani del (forse davvero defunto) al-Baghdadi? Con Daesh che non fa ombra ad Hamas e non colpisce Israele, ma si accolla quasi per intero il peso della sovversione del Sinai?
Gli strateghi di Israele, infine, non si saranno negati un ulteriore pensiero.
Da tempo è in atto una guerra a bassa intensità, combattuta sul territorio della Siria, tra lo Stato ebraico e l’Iran, che il governo Netanyahu non fa mistero di considerare la propria principale preoccupazione. Potrebbe, questo attentato sulla Spianata, essere una rappresaglia per le bombe israeliane (che hanno ucciso anche un generale iraniano dei pasdaran) sui convogli di Hezbollah in Siria, per l’aiuto che Israele presta a diversi gruppi armati del fronte anti-Assad, per la collaborazione semi-ufficiale tra Israele e Arabia Saudita, la monarchia sunnita arci-nemica degli ayatollah sciiti? Sono solo ipotesi ma è impossibile non considerarle. Anche perché hanno alla base una pratica vecchia di decenni. Quella di usare i palestinesi come uno strumento di interessi altrui invece di aiutarli come si dovrebbe fare con un popolo disperso e rinnegato.