Opinioni

Pacta sunt servanda. Quanto vale l’intesa con l’Iran

Riccardo Redaelli giovedì 3 maggio 2018

L’attacco mediatico è partito in vista della decisione statunitense, il 12 maggio, se ripudiare o meno l’accordo nucleare con l’Iran (il cosiddetto Jcpoa). Spettacolare lo show del primo ministro Netanyahu, in diretta televisiva, con cui Israele ha denunciato la "duplicità iraniana". Ci vorrà molto tempo per vedere cosa contengono le decine di migliaia di pagine trafugate dal Mossad, in cui vi sarebbero le prove di un programma nucleare militare clandestino portato avanti da Teheran nonostante gli impegni presi con la comunità internazionale o derivanti dal Trattato di Non Proliferazione. Forse giova ricordare come, dal 2002, Netanyahu ci continui a informare che l’Iran sia a soli sei mesi dalla bomba. Sono passati sedici anni e l’Iran viene sempre presentato come ormai prossimo alla realizzazione di un ordigno di distruzione di massa.

E questo nonostante nessun Paese abbia "gli occhi" dei servizi segreti e dell’Agenzia atomica internazionale addosso da quasi due decenni come la Repubblica islamica dell’Iran. Gli unici indizi di un interesse verso lo sviluppo militare da parte di Teheran si fermano sostanzialmente al 2003. Da allora vi è ben poco che non sia oggetto di verifica.

Ma è evidente come l’oggetto del contendere vada molto al di là dei cavilli del Jcpoa che, a dispetto della retorica martellante e degli slogan di chi di quell’accordo sa spesso molto poco, rimane un buon compromesso. Frutto di dodici anni di negoziati e di complesse proposte tecniche e politiche. E che offre all’Occidente la sicurezza non già che Teheran non possieda la tecnologia nucleare (oggettivamente un richiesta ridicola oggi, dato che la possiede da tempo), ma che l’uso di questa tecnologia sia solo a fini civili e di ricerca, basandosi su di un sistema di verifiche e di controlli convincente.

La volontà di cancellare la firma apposta dal presidente Obama nel 2015 deriva da altro. Ossia dalla volontà di Arabia Saudita, di Israele e della lobby anti-iraniana ormai dominante a Washington di isolare e marginalizzare quel Paese, ossessivamente percepito come la minaccia alla stabilità di un Medio Oriente allo sbando da troppo tempo e certamente non solo per colpa di Teheran. Non è a causa di chi ha firmato il Jcpoa se i sauditi hanno sbagliato negli ultimi quindici anni tutte le loro mosse, appoggiando spesso i movimenti più indegni e pericolosi dell’islam sunnita.

Avendo perso (fortunatamente) le scommesse geopolitiche in Iraq e Siria e avendo dimostrato la sua fragilità nel conflitto yemenita, ora Riad cerca la demonizzazione definitiva dell’Iran. In alleanza di fatto, come già detto, con Israele e forte di un’amministrazione statunitense completamente sbilanciata. L’Europa, che quell’«accordo nucleare» ha cercato con tenacia e, infine, ottenuto, appare ora in grande difficoltà. Da un lato una sconfessione statunitense dell’accordo sarebbe umiliante per la diplomazia dell’Unione, dall’altro si cerca di evitare una divaricazione totale che amplierebbe il solco fra le due sponde dell’Atlantico. Ma l’unico strumento che oggi sembrano avere le cancellerie europee è richiedere a Teheran modifiche sostanziali all’accordo, includendo anche, fra le altre cose, la questione missilistica. Esclusa da sempre dalle trattative sul nucleare. È però assolutamente evidente l’indisponibilità iraniana a rimettere mano ai suoi 'doveri', soprattutto dopo due anni in cui gli Stati Uniti hanno disatteso i passi previsti in tema di riduzione delle sanzioni.

Anzi, il governo del moderato Rohani, che ha voluto a tutti costi questo accordo, fatica in patria a fronteggiare le critiche dei conservatori e degli ultraradicali. Per questi ultimi la propaganda ossessiva contro l’Iran è paradossalmente un regalo insperato, che li rafforza ulteriormente nei gangli interni di potere, nonostante il sostegno popolare di cui godono sia molto limitato. Vi è infine un messaggio, estremamente pericoloso, che può arrivare da una eventuale decisione di Trump di rompere. Quello che la parola e la firma dei Paesi occidentali sia sostanzialmente inaffidabile e che coloro che si imbarcano in difficili negoziati con gli Usa e i loro tradizionali alleati possano poi trovarsi con un foglio di carta firmata dal valore molto dubbio. Pacta sunt servanda è un principio base dell’idea di diritto. Infrangerla per inde © RIPRODUZIONE RISERVATA