Premio Nobel per la pace. La sedia vuota di Narges Mohammadi e il grido di tutte
La sedia che domenica 10 dicembre a Oslo resterà vuota durante la consegna del Premio Nobel per la Pace renderà evidente al mondo la ferocia del regime iraniano, che punisce duramente i suoi cittadini, e in particolar modo le donne, per il loro anelito di libertà.
L’assenza fisica di Narges Mohammadi – così come il prossimo 13 dicembre a Strasburgo quella dei familiari di Mahsa Amini, la cui memoria è stata onorata con il Premio Sakharov – sarà però tutt’altro che muta: sarà un grido al mondo e ricorderà che godere dei diritti umani fondamentali, contenuti nella Dichiarazione universale che proprio oggi compie 75 anni, in troppe parti del pianeta richiede lotta, impegno, sacrificio personale, talvolta la vita e spesso senza risultati apprezzabili nell’arco della propria esistenza.
L’attivista 51enne si è battuta per i diritti delle donne e ne è stata privata, per l’abolizione della pena di morte e assiste impotente allo stillicidio di esecuzioni di giovani connazionali nel suo Paese. Il Premio assegnato dal Comitato di Oslo è a lei e a chi insieme a lei porta avanti il movimento nonviolento “Donne vita libertà”, sbocciato proprio dopo la morte di Mahsa Amini.
Alla brutalità del regime di Teheran, Narges e gli altri attivisti oppongono coraggio, forza d’animo, idealismo e resistenza. Ci piace immaginare però che la poltrona destinata a Narges a Oslo rappresenti il “vuoto” di altri milioni di donne che non hanno voce per gridare il proprio dolore. Il “vuoto” delle afghane rinchiuse da oltre due anni nel carcere immateriale dell’apartheid di genere teorizzato e realizzato dai taleban nella (quasi) indifferenza del mondo. Il “vuoto” delle israeliane brutalizzate nell’assalto dei terroristi di Hamas dello scorso 7 ottobre, le cui verità faticano a trovare il giusto riconoscimento.
La conferenza stampa a Oslo dei due figli e del marito di Narges Mohammadi - ANSA
Il “vuoto” delle palestinesi uccise a migliaia sotto i bombardamenti israeliani nella Strsicia di Gaza. Il “vuoto” delle yemenite senza nome vittime di una guerra dai contorni oscuri e pressoché ignorata, delle dissidenti russe e bielorusse che si oppongono all’autocrazia e sono rinchiuse dietro le sbarre, delle ragazze stuprate a migliaia nella guerra fratricida del Tigrai… Anche per loro, oggi, per la loro resistenza che pochi conoscono e che ancora meno vogliono conoscere, è quella sedia vuota, quel baratro immenso in cui annegano diritti, libertà, dignità.
Narges Mohammed, in qualche modo, le rappresenta tutte, con la sua assenza e il sacrificio di sé. La sappiamo in una prigione, malata ma non arresa, e immaginiamo che oggi il riconoscimento che il mondo le riserva possa essere condiviso da milioni di altre donne sconosciute, la cui vita è costellata di fatica, di diritti negati e di futuro calpestato.
Il Nobel per la pace a Narges Mohammadi offre lo spunto anche per riflettere su altro “vuoto”. La scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievič, Nobel per la letteratura 2015, scriveva che «la guerra non ha un volto di donna», intendendo che non ne sono le artefici ma le vittime incolpevoli. Potremmo chiosare che nemmeno la pace lo ha, purtroppo. Il Comitato di Oslo quest’anno ha premiato con il massimo riconoscimento una attivista che lotta per i diritti umani, nella convinzione che senza il rispetto di essi non ci può essere nemmeno pace.
Ma dobbiamo osservare che dalla Libia alla Siria, passando per il Sudan, nei processi di pacificazione attivi nel 2022 in cui l’Onu ha avuto una parte, la rappresentanza politica femminile si è fermata al 16 per cento (era del 19% nel 2021 e del 23 per cento nel 2020). Dunque la “sedia” della storia rimane priva di donne non solo perché esse sono le vittime misconosciute e addirittura ignorate di conflitti e discriminazioni, ma anche perché ad esse non viene riconosciuto un ruolo e un interesse nella costruzione della pace. Troppi “vuoti”, troppe assenze sono condensate in quella poltrona su cui nessuna, domenica, si siederà.