Il segreto dello show record: unire gli italiani, non dividerli. Fiorello intona l’«Osanna» l’Italia riscopre di saper cantare in coro
«Santo santo santo... Osanna nell’alto dei cieli». Se dal televisore, sul far della mezzanotte, esce questo canto, che sgorga da almeno mille ugole all’unisono, pensi: sarà la veglia di Natale; sarà un’emittente cattolica; e che cosa potrà mai essere?
Invece, lunedì sera, era la seconda puntata dello show di Rosario Fiorello su Raiuno, in diretta dal laico santuario dello spettacolo, Cinecittà. Show record: 12 milioni di telespettatori, dopo i poco meno di 10 della prima puntata, con picchi superiori ai 14 milioni; share del 42,60 per cento, vale a dire che dei circa 30 milioni di italiani che lunedì sera, tra le 21 e le 24, erano davanti al televisore, più di 4 su 10 erano lì con lui. E l’Osanna?
Fiorello ha appena duettato con Michael Bublè. Lo sfida: vuoi sentire come cantano gli italiani? E, agitando il braccio come il direttore d’un coro, intona: «I cieli e la terra...». Ma sì, quello che ogni domenica si canta in chiesa, a messa. Il coro parte immediato, compatto, senza esitazioni. Alla faccia della secolarizzazione, della scristianizzazione, della scatechizzazione, dell’analfabetismo liturgico. «Osanna nell’alto dei cieli!». Ed è contento, Fiorello, come un parroco in cui il suo gregge ha fiducia e che lui ricambia. Attenzione, Fiorello la vena del celebrante ce l’ha nel sangue. Almeno un’altra volta, il 27 novembre 2009, diresse un Santo corale, ed era ospite dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.Un canto liturgico del tutto decontestualizzato. Eppure nessuno scandalo, nessuna protesta, nessun commento risentito o stizzito. Giustamente. Nessun intento provocatorio, in lui, ma soltanto il desiderio di far cantare a un pubblico eterogeneo, di cui non poteva sapere nulla, qualcosa di sicuramente noto. Il desiderio di far dire agli italiani: perbacco, siamo ancora capaci di cantare in coro. Per farlo, occorreva andare a colpo sicuro. Osanna, appunto, a dimostrazione di quanto le parole, i suoni, i simboli della fede siano radicati negli italiani, anche se credenti tiepidi, anche se non praticanti, anche se delusi o indifferenti. Però... Però poteva intonare anche qualcos’altro. Fratelli d’Italia, Nel blu dipinto di blu, Quarantaquattro gatti... Perché un canto liturgico? A costo di abusare in fantasia, la sensazione è che un canto liturgico, preso in prestito dalla liturgia sacra, fosse appunto il più adeguato per una liturgia, laica ma liturgia. Perché tanti italiani sono calamitati da un buon prodotto d’artigianato televisivo condotto da uno showman capace e garbato come Fiorello? In fondo non c’è nulla di rivoluzionario. È un ottimo show, ma è il solito show, erede del varietà. È uno Studio Uno dilatato a tre ore e accelerato da telecamere che zoomano e volano.Ma è sempre il solito varietà... Il solito, appunto. Il piacere non deriva dalla novità, ma dal riconoscimento (dalla celebrazione) del già noto. La novità suscita curiosità e interesse; il già noto stuzzica le corde del cuore. E questo è il primo bisogno dell’italiano stanco e impaurito e insicuro.Il secondo è un bisogno profondo di 'liturgia', di ritrovarsi in tanti attorno a qualcosa di condiviso. E questo è lo show di Raiuno, con Fiorello officiante in giacca di lamè, consapevole del suo ruolo ma così intelligente e mite da giocarlo con misura, senza abusare del proprio evidente potere. Il suo Osanna, decontestualizzato e desacralizzato, dice comunque qualcosa di 'sacro': siamo un popolo, sappiamo ancora sorridere, possiamo farcela. Sarà anche poco, ma di questi tempi è molto.