Opinioni

Le parole di Renzi sull'impegno di una nuova generazione. «Ora tocca a noi» Una speranza s'affaccia

Marina Corradi mercoledì 11 dicembre 2013
La speranza e la fiducia, di questi tempi, sono cose che si centellinano con cura. Tuttavia l’altra sera, ascoltando Matteo Renzi, alcune parole, lo ammetto, hanno mosso in me qualcosa di simile a una speranza. (Che subito, da cittadina della Seconda Repubblica, ho represso: via, mi sono detta, non vorrai crederci veramente). Due punti, culturali più che politici, mi hanno interessato. Il primo è stato quel ripetere, Renzi, «ora tocca a noi»; intendendo come «noi» la generazione dei quarantenni. E non in quanto 'giovani', ma, ha detto, in quanto uomini e donne che il giorno del crollo del Muro di Berlino andavano alle scuole medie o alle superiori.
Possibile, mi sono chiesta, che il fattore generazionale possa spingere quel passo in avanti che in Italia manca, per cui si gira attorno alle questioni, si briga, si litiga, ci si insulta, ma sembra che si rimanga poi fermi allo stesso punto? Forse non è impossibile. Le generazioni e la loro storia marcano profondamente la classe dirigente di un Paese. La Prima Repubblica era figlia di quelli che avevano fatto e sofferto la guerra; la cosiddetta Seconda, di uomini cresciuti nel boom economico e maturati attorno al ’68, da una parte o dall’altra della barricata. Che l’Italia abbia davvero bisogno di una nuova generazione, che non ha vissuto la Guerra fredda, e per cui il ’68 è già un passato quasi remoto? Di gente non più cresciuta in una ideologizzazione costante, nella spartizione del mondo in 'destra' e 'sinistra'; e nemmeno in quel manicheismo per cui l’avversario politico è, sempre, un nemico. Di modo che, sì, quell’«ora tocca a noi» suscita in me una forse ingenua speranza: che altre facce sappiano finalmente guidare dentro un’altra storia questa Italia.
L’altra cosa che mi ha colpito nel discorso di Renzi è stato il parlare di scuola ed educazione come di un investimento; e in particolare l’annotare come la generazione di suo padre andasse dagli insegnanti dei figli, propensa a pensare che gli insegnanti avessero ragione; mentre i genitori di oggi, «sbagliando», ha detto Renzi (e quante volte ci abbiamo ragionato su in riunione di redazione), vanno dai professori dei figli già convinti che i torti siano solo dei professori. Non è una nota marginale, questa, sullo sguardo fra padri e figli; e molti dei nostri problemi, credo, stanno anche nella catena generazionale interrotta in quegli anni in cui la parola 'padre', col suo portato di autorità e autorevolezza, è diventata una brutta parola. Ricominciamo dal riappropriarci di questa autorevolezza, ha detto Renzi – ( l’etimo di autorità è ' augere', che significa far crescere, quindi educare). Un sussulto di speranza, dunque. Un’illusione? (Siamo diventati così avari di fiducia, in Italia). Poi, ieri, guardando le piazze occupate, le facce esasperate, mi sono chiesta anche se non sia già troppo tardi, per la generazione che dice «ora tocca a noi». Come se ci si trovasse su un crinale sottile; e da che parte davvero vada l’Italia è occasione, per noi che ci crediamo, oltre che di sperare e fare, di pregare.