Opinioni

Ma ancora non basta per far giustizia. Ora il mondo vede la vera Eritrea

Giulio Albanese giovedì 9 giugno 2016
Il fenomeno migratorio dalla sponda africana, che tanto preoccupa le classi dirigenti europee e vasti settori dell’opinione pubblica del Vecchio Continente, non può essere disgiunto dal fatto che, da quelle parti, vi siano regimi sanguinari, spesso sostenuti da corposi interessi stranieri. È quanto si evince dal rapporto pubblicato ieri dalla commissione di indagine sui diritti umani in Eritrea, creata a giugno del 2014 dal Consiglio dei Diritti umani dell’Onu, in cui si denunciano crimini di schiavitù, prigionia, sparizioni forzate, tortura, persecuzioni, stupri, omicidi e altri atti inumani «in una campagna per instillare la paura e scoraggiare l’opposizione».A dire il vero, si tratta di una storia vecchia, non fosse altro perché sono decenni che la società civile eritrea, e i pochi che le prestano ascolto (per esempio dalle colonne di questo giornale), lancia drammatici appelli all’indirizzo del consesso delle nazioni, sia in ambito panafricano sia in sede Onu. Purtroppo, duole doverlo scrivere di nuovo, queste denunce sono sempre cadute nel vuoto. L’Eritrea è un Paese in cui vige da decenni una delle più feroci e criminali dittature presenti nel continente africano. Il presidente Isaias Afewerki ha imposto il monopartitismo impedendo lo svolgimento di libere elezioni. E dall’indipendenza in poi, molti oppositori politici sono stati arrestati e l’economia nazionale è allo stremo. Afewerki, con la ristretta cerchia dei suoi collaboratori più fidati, ha praticamente il controllo di tutto: assetti istituzionali e militari, scelte politiche, programmi economici.Da sottolineare che il governo di Asmara non ha concesso l’ingresso nel proprio Paese ai membri della Commissione, che ha però ottenuto le informazioni da 833 interviste con eritrei della diaspora, residenti in 13 Paesi, e grazie a 160 dichiarazioni scritte ottenute durante la sua prima indagine da metà del 2014 alla metà del 2015.Come era prevedibile, il regime eritreo ha rispedito al mittente le accuse, sostenendo che «tutti gli ambasciatori europei presenti in Eritrea non concordano con le conclusioni della Commissione». C’è da augurarsi che non sia vero perché se così fosse le autorità di Bruxelles e le nostre cancellerie non farebbero certo una gran bella figura. Anche se poi, a pensarci bene, è evidente che il regime asmarino goda di sostegni, più o meno occulti. La presenza, nel Paese, di esponenti di spicco del mondo salafita la dice lunga su quanto siano ramificati. In fondo, l’Eritrea non dispone di riserve monetarie né di altro genere (a parte un giacimento non ancora sfruttato di petrolio e gas offshore) da far valere come occasione di riscatto: cosa che, del resto non esclude la via migratoria e premessa per un’islamizzazione di matrice estremista dell’intero Paese, dove hanno convissuto per secoli musulmani e cristiani.Nel severo rapporto della commissione Onu, si chiede dunque al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di deferire il caso alla Corte internazionale di giustizia. Non v’è dubbio che Isaias e la sua cricca andrebbero giudicati, senza mezzi termini, da un tribunale penale internazionale, avendo ridotto il Paese a una sorta di prigione a cielo aperto. Ma perché ciò sia possibile è necessaria anche una maggiore collaborazione da parte dell’Unione Africana (Ua). La recente condanna dell’ex presidente-dittatore del Ciad, Hissène Habré, riconosciuto colpevole di crimini contro l’umanità e condannato all’ergastolo in Senegal, fa ben sperare. Personaggio inquietante, soprannominato il «Pinochet dell’Africa», Habré, nel corso della sua presidenza, tra il 1982 e il 1990, ha ucciso 40mila persone e torturato oltre 12mila. Ebbene, in questo caso, il conferimento, da parte della Ua, di un mandato speciale al Senegal per perseguire i crimini commessi da Habré in patria, potrebbe essere applicato nei confronti di Isaias che continua impunemente a fare il bello e il cattivo tempo.Il problema è che per arrestare il dittatore eritreo la magistratura locale dovrebbe essere messa nelle condizioni di poter svolgere le proprie funzioni. Cosa, al momento, a dir poco utopistica, non solo in Eritrea, ma anche in quei Paesi africani sotto il giogo dei regimi totalitari.