L'America che ferisce, quella da amare. Ora ci vuole un Kennedy
Ho un trauma da smaltire, un doppio trauma, e non ci riesco. Lo stesso doppio trauma ce l’hanno gli uomini e le donne della mia nazione, del mio continente, del mondo. Siamo sotto choc, e non riusciamo a liberarcene. Il doppio trauma è il presidente degli Stati Uniti nascosto nel bunker della Casa Bianca, per paura della folla che lo assediava, e la vista del cittadino americano nero morto sotto le mani della polizia, ucciso non per errore, non per caso, ma coscientemente e lentamente, in un tempo lungo, interminabili minuti e minuti. Ho detto “sotto le mani”, ma dovevo dire “sotto i piedi”. Perché l’uomo che muore è steso a terra, e il poliziotto che lo immobilizza più di ogni altro lo tiene bloccato con un ginocchio sul collo. Cioè: gli strozza il respiro. La vittima glielo dice, ripetutamente: “Non respiro”, ma finché lo dice vuol dire che è viva, e il poliziotto continua a premere, quando non lo dice più vuol dire che sta morendo, e il poliziotto tira via il ginocchio. Troppo tardi. La vittima muore. È un nero, ma a questo punto credo di poter scrivere “un negro”. C’entra la sua negritudine con la sua morte? Purtroppo sì, il poliziotto gli ha fatto quella violenza perché è un negro, e voleva dargli una lezione. Ha perso i nervi, il poliziotto, si tratta di un malaugurato incidente in una biografia integra? Purtroppo no, la biografia di quel poliziotto è già segnata da 18 citazioni in giudizio per atti di violenza. Dove siamo? In America, a Minneapolis. E cosa chiediamo, una rivolta contro le istituzioni, un assalto alle sedi della polizia, la venuta di uomini di legge e di governo estranei alla storia americana? Assolutamente no: ci uniamo a coloro che invocano e aspettano un nuovo Kennedy, come il primo Kennedy, John, o come il secondo, Bob. E non ditemi che Kennedy, primo o secondo, era estraneo all’America. Kennedy “era” l’America. L’America è democrazia ed è civiltà, se noi abbiamo democrazia e civiltà lo dobbiamo all’America.
L’America ci ha insegnato l’importanza dell’informazione e dei media. Se il caso del negro americano strozzato dal poliziotto dilaga sul mondo, non lo dobbiamo a tribunali federali o statali, o a procuratori, lo dobbiamo alle tv: una tv ha ripreso la lunga scena minuto per minuto, secondo per secondo, tutti nel mondo abbiamo sentito l’uomo imprigionato a terra col ginocchio sulla gola rantolare “Non posso respirare”, e abbiamo visto il poliziotto restargli col ginocchio piegato sulla strozza, e attorno a lui tre poliziotti dritti in piedi controllare che la scena andasse verso la sua conclusione. Cioè verso la morte. Dunque i poliziotti parte attiva e parte passiva nello strangolamento del negro sono quattro. Se ci fosse Kennedy, il primo o forse meglio il secondo, tutti e quattro sarebbero stati fermati e rinchiusi. La moglie di quello che ha posato il ginocchio sul collo della vittima ha chiesto subito il divorzio, dice che non può più vivere con un uomo capace di tanta violenza. Alla violenza lo Stato deve rispondere con la giustizia, e un presidente come i Kennedy così farebbe. Ma al posto di un Kennedy c’è un presidente il quale risponde che i dimostranti violenti sentiranno nei polpacci il morso di cani feroci. L’America ha nella sua storia, nella sua cultura, nel suo Diritto la soluzione di questo caso. Ma non è quella dei cani che mordono. È un’altra. Che non soltanto porterebbe questo caso a una soluzione, ma gli avrebbe impedito di nascere. È l’America dei Kennedy. Aspettiamo un nuovo Kennedy. E non è detto che l’attesa sia lunga.