Opinioni

A rischio le donazioni di farmaci. L'Aids può essere vinto Un errore fermarsi adesso

Ban Ki-Moon martedì 20 luglio 2010
Nella più grande clinica dedicata alla cura dei malati di Aids in Uganda, sono stato testimone di un’ammirevole celebrazione della vita. Si trattava di uno spettacolo realizzato da un gruppo di cantanti, suonatori di tamburo e ballerini africani, tra gli 8 e i 28 anni. Raramente mi è capitato di commuovermi a tal punto.Ascoltando, era difficile immaginare che sarebbero potuti essere morti, e morirebbero, se non fosse per questa clinica. Ognuno di questi splendidi interpreti è sieropositivo. Alcuni si sono presentati alla clinica così malati che potevano a malapena camminare. Tutti vivi e in salute soltanto per una ragione: il Joint Clinical Research Center di Kampala, e i farmaci che questa clinica ha loro fornito. L’Uganda è stato l’epicentro dell’epidemia di Aids. Lì il flagello si è manifestato prima; lì (come altrove in Africa) è stato pagato il prezzo più alto. Tuttavia, l’Uganda è anche la storia di un successo. Dieci anni fa, meno di 10mila persone erano sottoposte al trattamento con farmaci antiretrovirali di nuova generazione, in grado di bloccare la malattia e di permettere una vita normale. Oggi, le persone in cura sono 200 mila, grazie in larga misura al generoso sostegno da parte degli Stati Uniti (nel quadro del Piano d’emergenza per gli aiuti contro l’Aids) e del Fondo Globale per la lotta all’Aids di Ginevra.Abbiamo visto altrettanto incoraggianti progressi anche altrove. Il Botswana, tra gli altri, ha investito molto sulla possibilità di offrire un trattamento per tutti e ora è ha buon punto perché nessun bambino nasca sieropositivo – già una realtà nei Paesi sviluppati, ma non altrettanto in Africa, dove 400mila bambini nascono malati ogni anno. Tuttavia, questi progressi sono nuovamente a rischio, e in modo crescente. Il dottor Peter Mugyenyi, che dirige il Joint Clinical Research Center, mi ha spiegato il motivo. Parte del problema sta nel peso determinante che hanno i numeri. In Uganda, solo metà di coloro che sono sieropositivi o malati di Aids vengono curati, mentre i fondi per il trattamento si prosciugano. A causa della recessione globale, alcuni donatori internazionali minacciano di tagliare il sostegno finanziario. A Kampala, Mugyenyi ha cominciato a redigere una lista d’attesa dei nuovi pazienti. Paesi come il Malawi, lo Zimbabwe e il Kenya, così come l’Uganda, hanno fatto richiesta urgente di rifornimenti medicinali. E ne servono tanti per 7 milioni di Africani sieropositivi che dovrebbero essere sotto trattamento e non lo sono. In tutto il mondo, il numero sale a circa 10milioni. Ad aggravare il problema, anche il fatto che i donatori hanno spostato la loro attenzione dall’Aids ad altre malattie, per le quali si ha la sensazione di poter salvare più vite spendendo meno. In un momento in cui dovremmo moltiplicare gli sforzi per far fronte alla sfida dell’Aids, ci tiriamo indietro.Nella nostra lotta globale, la comunità internazionale è in bilico tra vittoria e sconfitta. Tutti coloro che sono impegnati in questa lotta sono preoccupati. Temono che le notevoli conquiste degli ultimi dieci anni vadano perdute. «Siamo seduti su una bomba ad orologeria», mi ha detto il dottor Mugyenyi. Ogni giorno, è costretto a fare scelte cui nessuno dovrebbe essere costretto. Dopo tutto, come si fa a decidere di curare una ragazzina, ma non il suo fratellino minore? Come si fa a voltare le spalle a una donna in gravidanza, seduta accanto ai suoi figli, che piange implorando di aiutarla? Di sicuro possiamo fare meglio. A Kampala, ho promesso ai miei giovani amici che avrei fatto tutto ciò che è in mio potere per aiutarli. Alla Conferenza internazionale sull’AIDS, in corso a Vienna, spero che la comunità internazionale darà man forte all’Unaids per il lancio del Trattamento 2.0 – l’ultimissima generazione di cura dell’HIV, che deve essere più affidabile, più efficace e accessibile a tutti. In quanto presidente della conferenza dei Paesi donatori del Fondo Globale, sollecito tutti a impegnarsi, per dare a Paesi come l’Uganda il supporto di cui hanno bisogno.Ho lasciato l’Uganda con un frammento di canzone che continua a riecheggiare nel mio cuore. La sua verità intrinseca sarebbe ovvia, se foste stati lì per vedere: «Siamo ancora utili al nostro Paese, alle nostre famiglie. Tutto quello di cui abbiamo bisogno è un modo per vivere i nostri giorni. Tutto quello di cui abbiamo bisogno è di sopravvivere in Africa». Sì, sono tempi duri. Questa di tutte è la ragione più importante per agire con compassione e generosità.