Oneste obiezioni d'uno sportivo alla (in)giustizia contro i veri tifosi
Gentile direttore,
sono un tifoso dell’Inter, abbonato per l’ottavo anno consecutivo. Le scrivo per esprimere il mio rammarico per la decisione del giudice sportivo di far disputare le prossime due gare casalinghe a porte chiuse. Con quale motivazione si nega a me il diritto di assistere a una partita che ho pagato, senza che vi sia alcuna prova – e sfido chiunque ad accusarmi – di un mio coinvolgimento nei disgustosi cori sentiti ieri sera da parte di entrambe le tifoserie? E, soprattutto, che messaggio mi viene recapitato? Che il campionato – con i suoi sponsor e contratti miliardari con le televisioni – è importante che prosegua, va tutelato; il mio abbonamento no. Che, in uno stadio riempito da oltre 63mila persone, ognuno paga le colpe di altri. Altri chi? Altri. Che schedatura (detta anche “tessera del tifoso”), posti numerati, telecamere, tornelli, steward e polizia non servono a nulla: si punisce sempre alla cieca. Che il campionato di serie A può essere tranquillamente ricattato. Che se si parla di «pulizia etnica controllata» si può diventare ministro dell’Interno, se si blatera di un certo «Opti Pobà» che «è venuto qua, prima mangiava le banane» si viene scelti come presidente della Figc ma, se il mio vicino di posto allo stadio ulula nei confronti di un giocatore nero, io perdo il diritto di seguire la mia squadra del cuore. Non sto giustificando in alcun modo né i comportamenti né le eventuali convinzioni sottostanti gli ululati, sia chiaro. Rifiuto tuttavia categoricamente l’utilizzo del termine “giustizia” per indicare questi trattamenti immotivati, generalizzanti e straordinari, sulla base dell’assunto che il “tifo” sia una categoria che raggruppa persone di serie B, macchiate da un non ben precisato peccato originario. Tutto è lecito con i tifosi, direttore. Se le misure restrittive saranno confermate, non rinnoverò un abbonamento che, dall’oggi al domani, può non valere nulla. Più facilmente, ai fiumi di parole non seguiranno fatti concreti, come sempre. La riprovazione sociale sale, le autorità strepitano, i soliti pagano, tutto torna come prima. Di sicuro però, essendo restati a casa durante Inter- Sassuolo, saremo diventati tutti delle persone migliori.
Giacomo Bonetti, 26 anni Milano
Se rinuncerà davvero all’abbonamento per protesta contro l’«ingiustizia sportiva», sono certo che lei, caro e giovane amico, non rinuncerà alle sue disarmate e civilissime battaglie da cittadino, da sportivo e da tifoso degno di questo nome. Eppure, anche se le motivazioni che mi affida sono serie e spiegate con notevole efficacia, non riesco a credere che lei smetterà di frequentare lo stadio. Mi auguro, anzi, che non lo faccia. E non solo perché sono interista come lei. Sono le persone a “fare” la qualità dei luoghi. Di ogni luogo. E abbiamo un gran bisogno di persone e soprattutto di giovani che, da praticanti e da appassionati, sappiano pensare e vivere il calcio – una delle discipline più popolari e coinvolgenti – come eccellente espressione di armonia, forza e umanità. L’esatto contrario della violenza, dell’odio e del razzismo. Ogni vero sport è questo. E per questo il gioco del pallone, nonostante le torsioni cinico-affaristiche che continuano a sfigurarlo, riesce ancora a far innamorare e resta una straordinaria palestra per educare i ragazzi al gioco di squadra, alla valorizzazione delle differenze, alla fatica gioiosa e alla responsabilità personale.