Opinioni

Il male ignorato e la speranza. Se il genitore uccide il figlio La disperazione e la cura

Marina Corradi venerdì 12 dicembre 2014
Martedì a Numana un giovane padre ha ucciso la moglie e il figlio di 5 anni. Mercoledì, a Rapallo, una identica tragedia. E ieri, a Bordighera, una giovane donna russa è uscita dall’albergo dove era in vacanza, e – ha poi confessato confusamente – ha gettato in mare il suo bambino di dieci mesi, che a tarda notte non era stato ritrovato. Tre vicende così in poche ore sono troppe per non destare un’ inquietudine, come il sospetto che si aggiri fra noi una non riconosciuta malattia, quasi un virus ignoto; che qui o là, tra milioni di case, attecchisce; e come un seme allora comincia a allungare le sue radici. Perché uccidere la moglie o se stessi è terribile, ma uccidere un figlio bambino è qualcosa che va oltre: è annientare, oltre alla vita propria, il proprio futuro, colui che avrebbe continuato la nostra storia. È come dire in fondo che non solo la vita è insostenibile per noi, ma che è così oggettivamente e intollerabilmente crudele che non ci si può lasciare dentro, indifeso, un figlio. È il massimo della disperazione, è la negazione più radicale di ogni speranza. E si potrebbe allora pensare che questa tragica epidemia sia un frutto della crisi, del lavoro che manca, delle prospettive negate. Tuttavia, almeno in queste tre ultime vicende, e spesso nelle non poche che le hanno precedute, lo scenario è quello di famiglie borghesi, e a fare esplodere il dramma sono abbandoni o separazioni, o solitudini cullate nella apparenza di case "normali".Ma questa raffica di una violenza che diremmo contro la nostra natura, dovrebbe porci delle domande. Perché, qualunque sia l’origine della sofferenza che infine deflagra, sembra chiara almeno una cosa: nella testa di quei padri e quelle madri non solo c’erano incomprensione e angoscia, ma questi stati d’animo sono arrivati al punto di non ammettere più alcuna possibile soluzione o speranza. La sofferenza interiore, cioè, da stato d’animo si è trasformata in giudizio: nessuno, nulla mi può aiutare, non i parenti o gli amici, e nemmeno, per chi crede, Dio. Neanche Dio è abbastanza grande per aiutarmi, sembra il pensiero che innesca certe spirali di annichilimento: come un convitato di pietra, seduto a tavola la sera, silenzioso, in famiglia. E questo modo di pensare, parlando cristiano, si chiama disperazione, e può diventare un peccato, gravissimo, contro la speranza.Ma quanti oggi, e perfino fra i cattolici praticanti, ricordano con nettezza che la disperazione, quando da sentimento si fa adesione razionale e giudizio, è qualcosa di mortifero? Quanti di noi ancora sono stati educati a riconoscere, nel rifiuto convinto della misericordia di Dio, ciò che di peggio un uomo può fare?Siamo in un tempo in cui accade perfino – è accaduto mesi fa – che ai funerali di un ragazzo suicida la gente applauda, all’uscita della bara dalla chiesa: in un raggelante consenso a un nemmeno consapevole nichilismo. Allora forse ci potremmo domandare se il "virus" che si aggira per le nostre città non trova il suo humus in una disperazione contro la quale non siamo più avvertiti, contro cui non intervengono nemmeno i familiari, forse perché in fondo nemmeno loro sono così certi della ragione della loro speranza. E dunque il seme del nulla entra qui e là, nelle case. Spesso lo soffia via la fede di una preghiera, una parola buona, o la vicinanza concreta di un amico. Talvolta invece, nel terreno duro della solitudine, il seme attecchisce. Germoglia nel mutismo beneducato delle case borghesi, o in tante sere davanti a una tv accesa che parla del nulla. Si gonfia, la disperazione, nel silenzio, nelle chiacchiere vuote, nel confidare nella fortuna, o nelle stelle. Poi un giorno, in una casa apparentemente come tante, il male ignorato, trascurato, vezzeggiato, scoppia. E bisogna allora dare, e darsi la morte; e anche a quell’amatissimo bambino, ciò che di più bello la vita ha dato. Perché il bambino? Per non lasciarlo qui, orfano, in questo mondo senza Dio – in questa terra del nulla. Di modo che la raffica nichilista cui assistiamo ci interpella: l’anima ha bisogno di più cure del corpo, e una preghiera alla sera vale più di ogni sapienza, se ci ricorda che abbiamo un padre, in cui confidare.