Sarà un caso ma i 200 colpi dell’artiglieria della Corea del Nord contro l’isola di Yeonpyeong, che appartiene alla Corea del Sud e ospita una base militare, sono stati sparati dopo che sul regime monarco-comunista (da Kim Il Sung a Kim Jon Il all’erede designato Kim Jong Un) erano cadute alcune bombe diplomatiche di non trascurabile potenza. A lanciarle, meno di una settimana fa, erano stati gli Usa, preoccupati per i continui progressi della Corea del Nord nell’arricchimento dell’uranio (sarebbero ormai in funzione più di mille centrifughe) e la scoperta di un nuovo e potente impianto. Il potenziale bellico è innegabile, la Corea del Nord è pericolosa per la regione, gli ispettori dell’Agenzia atomica dell’Onu (espulsi un anno fa) devono poter tornare nel Paese: da Washington un duro giudizio e una chiara richiesta. È chiaro, dunque, che l’attacco militare di ieri è la risposta che la Corea del Nord manda agli Stati Uniti e a tutti coloro che vorrebbero rendere inoffensivo il suo potenziale arsenale atomico. Quelle centrifughe sono l’unica garanzia che il regime ha di perpetuare se stesso, tanto che per difenderle è disposto a rischiare con la Corea del Sud una guerra convenzionale che potrebbe infiammare l’area su cui s’affacciano Giappone, Cina e Russia e in cui hanno forti interessi gli Usa. Più difficile da decifrare, invece, è lo sfondo di questi avvenimenti. Ieri è volato a Pechino Stephen Bosworth, l’uomo incaricato dalla Casa Bianca di sciogliere la matassa dell’atomica coreana. Il confronto vero si svolge infatti tra gli Usa, un tempo dominatori politici della regione, e la Cina, che si sta facendo largo come un panzer e ha fin qui usato la Corea del Nord come una testa di ponte strategica e uno Stato vassallo.È da tempo evidente, però, che Washington può far poco per frenare Pechino. L’America di Obama ha un sacco di problemi in casa (l’economia) e fuori (i fronti ancora aperti in Afghanistan e in Iraq), e con la Cina che controlla il 21% del debito pubblico americano, per un valore di 850 miliardi di dollari, la prudenza è d’obbligo. Di certo non si può fare la voce grossa, nemmeno a proposito della Corea del Nord. Tutte cose che gli autocrati nordcoreani sanno benissimo. È lecito dunque pensare che, se provocazione volevano essere, le bombe della Corea del Nord fossero soprattutto mirate a risvegliare l’attenzione della Cina. Senza il soccorso di Pechino, il regime di Kim Jong Il crollerebbe come un castello di carte, non riuscirebbe a produrre l’energia elettrica per le poche fabbriche né il cibo per una popolazione anche così ciclicamente martoriata da carestie di stampo staliniano. Forse Kim Jong Il sta alzando il prezzo della propria fedeltà. Forse la Cina ha cercato di dire la sua nella successione al vertice della Corea del Nord: dopo tutto, il primogenito di Kim Jong Il, il ripudiato Kim Jong Nam, vive a Pechino. O forse un regime come quello nordcoreano è diventato difficile da gestire persino per palati poco delicati come quelli dei dirigenti cinesi, abituati a fare affari con dittatori di ogni genere ma da qualche tempo impegnati ad accreditarsi come interlocutori affidabili nella gestione dei problemi globali. Il tempo ci darà la risposta.Resta, per il presente e l’immediato futuro, il problema di un Paese sottosviluppato che si è procurato la bomba atomica mentre tutti guardavano altrove e che oggi la usa proprio per difendere la condizione di sottosviluppo. Un residuo di Medio Evo con l’arma nucleare, un rebus che non si riesce a risolvere.