Dietro le sbarre abitano uomini con un passaporto di ferro e cemento; e tanti anni da scontare nel ventre di una patria galera. Il carcere è sempre alla periferia della città perché i lupi devono vivere nella foresta. Eppure, se scrutati nel volto, lupi non lo sono proprio. O, perlomeno, non lo sono sempre stati. Magari non lo saranno più. Sono «avanzi di galera» dentro i quali batte ancora un fremito di vita. Uomini dietro il cui volto è nascosta una storia: spenta, appassita, frastagliata e frastornata, ferita e minacciosa ma pur sempre una storia di uomini. Per questi brandelli di umanità oggi è festa grande, un regalo anticipato di un Natale difficile da vivere qui dentro. I passi decisi e il sorriso amabile di un vecchio Papa recheranno loro l’annuncio più bello: nemmeno quest’anno Dio si scorderà di nascere dietro le sbarre di una patria galera.
Benedetto XVI varca la soglia del carcere romano di Rebibbia: eppure – per la forza simbolica dei gesti – è come se in contemporanea varcasse i cancelli di tutte le carceri d’Italia. Un gesto nobile e sublime fatto da un condottiero di Cristo che è alla costante ricerca di quelle pecore che dell’ovile hanno smarrito il sentiero. Perché l’eterna sfida del cristiano non muta d’aspetto: «Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi». E chi meglio di Benedetto XVI sa cosa significa oggi per il cristianesimo dialogare con la cultura moderna e le sfide che essa rilancia: la sfida dell’evangelizzazione passa anche attraverso la rielaborazione di una ferita della quale si è carnefici perché forse prima si è stati vittime. Quello del Papa è un gesto profetico e un monito al tempo stesso perché dietro le sbarre il cuore dell’uomo batte con gli stessi battiti di tutti gli uomini del mondo. Cercare l’uomo laddove la storia lo ha condotto è la sfida che non muterà mai d’aspetto perché dietro il volto di ognuno di loro, prima che il delitto parla una storia ferita. E tante paure meditate nelle lunghe notti di veglia: paura d’essere soli e abbandonati; del passato, del presente e del futuro; dell’amico, del nemico, di loro stessi. Del silenzio e forse anche di Dio. La presenza del Papa – reale per i detenuti di Rebibbia, simbolica per tutti gli altri – servirà loro per continuare a tenere accesa la speranza e l’emozione di sapersi ancora figli amati da Lui.
Quella cristiana è stata tacciata d’essere la storia più ambiziosa del mondo. Così ambiziosa che un gigante come Agostino d’Ippona definì «felice colpa» il percorso della sua avventura esistenziale. In carcere c’è chi lavora per recuperare l’uomo nel frattempo della reclusione: è condividere il sogno di Dio, che il peccatore non muoia ma si converta e viva. Forse anche per questo i panettoni che Benedetto XVI userà per i suoi regali personali arrivano dal carcere Due Palazzi di Padova, dove mani che hanno ferito diventano mani capaci di impastare la dolcezza, e dove ogni giorno si dipana la mia esperienza di cappellano. Qui siamo sicuri che il segreto di quella ricetta non sta nelle mani dei maestri pasticcieri (della splendida Cooperativa Giotto) ma in un incontro vero con un Dio che dentro il ventre di una galera ha ridato un senso splendido alla loro vita.
Questa è l’altra faccia del carcere, quella che oggi accoglie a braccia aperte la dolcezza di un Papa che non smette mai di stupire l’uomo. Quell’uomo che, nonostante tutto, rimarrà in eterno il miglior investimento del Creatore.