Auguri, ci diciamo in queste ore. Auguri, ci rispondono gli altri nell’imminenza di questa fine, e inizio, dell’anno, che ci attende come una frattura del quotidiano fluire delle cose – un fermarsi per un attimo del tempo – per poi riprendere a scorrere. Uguale ma, in una inconfessata attesa, diverso – come nuovo è l’anno che comincia, intonso. Auguri, felice anno, ci ripeteremo dunque, perché così si usa. Ma se un bambino, di quelli piccoli, nell’età in cui, vergini di abitudine, chiedono ancora il perché di tutto, ci domandasse: ma, auguri di cosa?, ecco forse questa domanda provocherebbe un imbarazzato sorriso, come davanti a una questione attorno a cui da tempo non ci facciamo più troppe domande. Insomma, si dice auguri, a Capodanno, e vuole dire: ti auguro buona salute, e serenità, e soldi, e fortuna. Non è forse per queste attese che fanno affari i venditori di oroscopi? Per l’ansia di sentirsi annunciare non straordinarie promesse, ma semplicemente un lavoro, un figlio che si rimetta a studiare, un affare che vada in porto. Auguri, dunque, di ragionevoli private speranze, di cui vivere nell’anno che viene. E però, questo augurio ci basta? Giacomo Leopardi immaginò il dialogo, a capodanno, tra un passante e un ambu-lante: «Almanacchi, almanacchi, bisognano almanacchi?». Il passante chiedeva al venditore di calendari se sarebbe stato disposto a rivivere uno degli anni passati, anche il più fortunato, però tale e quale. No, rispondeva il mercante, «vorrei una vita così come Dio me la mandasse, senz’altri patti». In quel desiderare un anno del tutto 'nuovo', del tutto 'altro', desiderio così umano e vero, sta una domanda inespressa. Nella scansione convenzionale che stanotte interrompe e ricomincia il tempo sogniamo giorni diversi, una pienezza più grande dei nostri umani bisogni. Una «grande speranza», ha detto Benedetto XVI nella ' Spe salvi', al di là di tutte le quotidiane speranze. Perché in realtà tutto, di quelle, ci sarà tolto un giorno. In fondo a noi però, indicibile come una pretesa troppo audace, sta un’altra aspirazione: «Desideriamo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla morte», scrive il Papa. Questo silenzioso desiderio ci sta scritto dentro. E non solo a chi crede. Pensiamo soltanto alle cronache di questi ultimi giorni, allo sfacelo di bombe a Gaza e alle promesse di vendetta, o alla pressione di migliaia di migranti sui nostri confini, avanguardia di masse di disperati che premono, invisibili, ai confini del Primo mondo. Davvero possiamo accontentarci delle nostre piccole speranze? Quand’anche fossimo noi 'sistemati', la coscienza della violenza che altrove continua, dell’ingiustizia, della fame, ci permetterebbe di dirci soddisfatti? Ma allora, potrebbe obiettare qualcuno, il realismo ci dovrebbe rendere disperati. È qui invece che opera la «grande speranza» che il Papa ha ricordato ai cristiani – come temendo che, nell’abitudine e nel tempo, ce la siamo dimenticati. La speranza cristiana non è solo un protendersi verso cose che verranno in un giorno lontano, ma, nella certezza di una promessa ricevuta, già cambia il presente – «produce fatti e cambia la vita». Come una donna, che nell’attesa di abbracciare il figlio che aspetta già sia felice, così è la speranza dei cristiani. Speranza di qualcosa che c’è già; germe, e a volte invisibile agli occhi; eppure vivo. Auguri, dunque, di cosa? Di tutto ciò di cui abbiamo, da uomini, bisogno: di affetti e lavoro e amici attorno, a farci coraggio. Ma auguri, prima di questo, di riscoprire la profondità della domanda che è in noi. Con la domanda autentica verrà la certezza; giacché, come intuì Pascal, «tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato».