È un paradosso, ma chi si oppone all’intervento sotto egida Onu per proteggere i civili libici – e di conseguenza contro il regime di Gheddafi, inutile nasconderselo – sembra vittima dell’antica sindrome del gendarme. La tentazione di imporre un ordine, di incasellare ogni Paese in una rigida scacchiera, di non tollerare mutamenti che aprano scenari di incertezza è infatti un retaggio del mondo bipolare della Guerra Fredda, o dell’idea unipolare dell’iperpotenza americana alla fine della storia, come ci si era illusi dopo il crollo del Muro di Berlino. L’oggettivo ridimensionamento del ruolo americano, assecondato da Obama, apre oggi spazi tanto imprevisti quanto vasti per sommovimenti di amplissima portata, a partire dal Maghreb e dal Medio Oriente. Vedere in qualunque rivolgimento politico l’opportunità per una presa del potere da parte di al-Qaeda o in ciascuna sollevazione popolare un’insidia per gli interessi delle democrazie consolidate – vuoi economici, vuoi legati alle migrazioni – pare la risposta a un riflesso che non vuole fare i conti con un quadro mutato e che non necessariamente sarà peggiore del precedente.Certo, il cambio di atteggiamento verso il rais di Tripoli è riuscito infine a essere tanto repentino quanto tardivo. Tuttavia, ha fatto onestamente i conti con la storia in marcia: una rivolta interna che ha raggiunto massa critica e convinzione nella possibilità di un successo grazie al contagio positivo delle rivolte in Tunisia e in Egitto. E lo stesso intervento militare in Libia può non rispondere a una logica di puro cambio di regime a uso di qualche interesse particolare quando si limitasse davvero a impedire il massacro di inermi cittadini, lasciando poi alle logiche interne del Paese lo sbocco finale della crisi.La logica del gendarme alle incognite preferisce l’ingessatura di situazioni incancrenite, il pugno di ferro alla dinamica delle società, la quale può o deve – secondo i punti di vista – essere agevolata nella direzione di maggiori aperture democratiche e di fondamentale rispetto delle minoranze, ma che non può (e forse non deve) venire necessariamente guidata dall’esterno. E spesso, oggi, non può essere guidata perché non esiste oggettivamente un singolo attore che abbia volontà e capacità di incanalare lungo sponde precostituite il fiume impetuoso del cambiamento. Nel ribollente scenario mediorientale, che prima avevamo salutato come culla di un nascente movimento di modernizzazione, adesso rischiamo di vedere soltanto i rischi di un’involuzione fondamentalista e una sorgente di caos che porterà nuovi immigrati sulle nostre coste. Magari con un crescente pericolo di terrorismo. Le dinamiche avviate hanno bisogno di tempo e di respiro, i loro esiti non sono necessariamente scontati. Ciò che possiamo imparare, mentre ancora i nostri aerei pattugliano i cieli libici, è che lo logica del gendarme, dell’ordine e dell’opportunismo non risulta più facilmente praticabile. Un mondo multipolare faticherà – ad esempio – a tenere a bada un Iran aggressivo e sempre più vicino al dotarsi dell’arma atomica, ma potrà anche lasciare emergere dalla camicia di forza degli schieramenti quegli spiragli che permettono il risveglio di nazioni che sembravano condannate a rimanere sotto il giogo di autocrati utili solo a chi faceva affari con loro. Ecco allora che evitare in futuro abbracci interessati e imbarazzanti con i leader che opprimono i propri popoli è la necessaria e coerente continuazione della scelta di intervenire per fermare Gheddafi. E che tale rifiuto sia la premessa per nuovo ordine, frutto sofferto non soltanto di ingerenze con secondi fini e di velleità di mettere la storia al guinzaglio.